Lo dico subito: sono maldisposto verso l’offerta teatrale “festivaliera”. I motivi sono evidenti, anche se i più, tra organizzatori e simpatizzanti, fingono di non capire o fanno spallucce, come a dire implicitamente che lo spettatore estivo deve dimenticare, oltre a sciarpa e cappello, anche il diritto di lamentarsi. A farne un breve elenco: servizi e comodità inesistenti, scarsissima puntualità, platee congestionate e mai climatizzate, problemi di acustica, spettacoli troppo numerosi, spesso abbozzati, non finiti, diseguali per ispirazione e tenuta, dispersi tra inutili eventi riempi-programma. È con questo spirito (di cui qualcuno mi rimprovererà lo snobismo) che assisto a Lourdes, spettacolo di Andrea Cosentino (nella foto), uno di quegli attori che si esalta nella misura breve e nella corta distanza tra palco e seggiolini.
Quanto alla tematica del sacro, cioè la corda cui si aggrappano gli spettacoli di questo festival, taluni con presa robusta, altri sempre sul punto di farsela scappare di mano, essa mi pare congeniale allo stile dell’attore teatino, con il suo modo di ripetersi e impuntarsi, di calarsi dentro panni popolari o grotteschi, di salvare una parola tra le tante e illuminarla di colpo; perché il sacro, quando si produce, è una scintilla che dura un istante, è il racconto sottovoce di una sconfitta tramutata in vittoria, è un canto morbidissimo, come quello di Danila Massimi, che in scena sfiora e fa vibrare strumenti inconsueti.
Nel caso di Lourdes, tratto dal primo romanzo della scrittrice Rosa Matteucci, ci sarebbero dunque i presupposti per un piccolo capolavoro. È una storia “alla Cosentino”, se l’espressione ha un senso: la candida ma non invasata Maria Angulema intraprende un viaggio a Lourdes come occasionale dama di carità, col proposito di chiedere ragione e giustizia delle sue sventure passate. Ma la chiassosa carovana di pellegrini ne mette alla prova le intenzioni e il mostruoso “Sistema miracolante” la respinge, almeno fino all’epilogo, in vero abbastanza prevedibile.
Sfortunatamente, l’aver voluto comprimere in un’ora un romanzo abitato da personaggi che sono già macchiette o raccapriccianti apparizioni (vecchie sciancate, barellieri belli e ritardati, sorveglianti ciclopiche e via dicendo) deve aver limitato la fantasia di solito spavalda dell’attore (e del regista), costringendolo a un ritmo piatto e piattamente accelerato, togliendogli anche il piacere di impastare lingue e dialetti, operazione che è già conclusa nella scrittura della Matteucci. Non a caso lo spettacolo si conclude com’era cominciato, con l’attore in mutande, sul punto di aprirsi a un abbraccio d’amore, ovvero alla Rivelazione (che circolarità e simmetria siano i grandi mali della scrittura contemporanea? Se fosse, quale acqua miracolosa potrà guarirla?)
Quando la cornice è suggestiva, di solito è inadeguata: nella suggestiva cornice della chiesa di San Giovanni il pubblico ride o ridacchia, infine batte le mani con sufficiente convinzione.