Appena entriamo nella sala del Teatro Magnolfi ci accolgono i proverbiali mustacchi di Roberto Abbiati: occhiali da sole e tuta bianca da lavoro sembrano voler ridurre il performer alla sola parte bassa del viso, di cui i baffi sono egemoni protagonisti. Con fare meccanico e asettico l’attore invita gli spettatori di Circo Kafka a prendere posto, per poi spogliarsi di quel costume neutro e iniziare a vestire i panni dei personaggi: sarà dapprima il poliziotto cinico e sospettoso, poi l’oppresso e spaventato Josef K; in tribunale interpreterà i ruoli sia del procuratore sia del giudice e, infine, diventerà malinconico boia, suonando triste la fisarmonica dopo l’esecuzione. Se avete presente l’espressività e la sapienza teatrale di Abbiati (in questo caso aiutato nella regia da Claudio Morganti) non vi sorprenderà che tutte queste parti siano interpretate senza (quasi) nessuna parola e in appena cinquanta minuti.
I due teatranti mettono in piedi una macchina scenica puntuale, insieme raffinata e artigianale: con elementi di recupero costruiscono una piccola piattaforma piena di fili, ruote, meccanismi, tendaggi. Al centro un letto, la cui testata diventa, prima, il banco per la testimonianza di K e, dopo, lo scranno per il giudice. Il modo in cui l’attore si muove nello spazio scenico è una delle caratteristiche per denotare i personaggi interpretati: il potere di alcune figure, in particolare poliziotto e procuratore, è tradotto sia nella possibilità di movimento, sopra e intorno alla piattaforma, sia dalla confidenza nell’ingaggiare gli spettatori in un gioco di sguardi. L’elemento circense richiamato dal titolo si realizza in questa ricerca di complicità con il pubblico e – soprattutto – nella cooptazione di linguaggi specifici di quell’ambito (clownerie, pantomima) in una traduzione prettamente teatrale di un testo letterario.
La componente sonora ha un ruolo importante nel funzionamento del meccanismo scenico: la musica non è un commento o un’indicazione ambientale, ma è sfruttata come un altro canale nella costruzione di una storia attraverso un linguaggio non verbale. Il didgeridoo suonato da Johannes Schlosser (spalla tecnica e musicale lateralmente presente in scena), o gli altri strumenti fieramente imbracciati dallo stesso Abbiati, fungono da elementi onomatopeici della rappresentazione: la cornamusa serve all’attore per rappresentare il senso di oppressione di K, così come la ruota di bicicletta con una linguetta di metallo tra i raggi traduce acusticamente la pomposa arringa del procuratore.
Proprio la colonna sonora fornisce la scusa per un’incursione della verbalità, con Abbiati che interrompe il ritmo serrato del dispositivo scenico: l’attore si rivolge a Schlosser per chiedere se non fosse presente una musica in quel particolare momento e, da qui, avvia una spiegazione su come certe combinazioni mettano in moto delle dinamiche che creano un movimento più grande (una scena teatrale, una bicicletta, il moto del sole). In questa riflessione, presentata con sciente goffaggine, lo spettacolo dichiara il proprio personale rapporto con l’opera di Franz Kafka: meccanismi inspiegabili, più grandi di chi li subisce, possono dar luogo a un’assurda persecuzione o, come nel caso di questo spettacolo, a un’efficace macchina scenica.
Applausi convinti di un pubblico di selezionati intenditori.