Esistono spettacoli belli e densi che, per magia, si offrono accoglienti allo sguardo, a prescindere dalla definizione sociale, culturale, esistenziale dello spettatore. E solo l’indomita scelleratezza dei critici può sperare di lambire tale incanto mediante la messa-in-posa delle parole, ancorché adoperate con la più cauta delle cure. Esistono, altresì, spettacoli non meno belli o densi che, pur non difettando d’ingegno, restano sospesi, confinati in una dimensione sfuggente e depotenziata.
Questa la sensazione al termine di Circo Kafka, allestimento atteso per l’intrigante incontro tra quel meraviglioso artigiano teatrale che è Roberto Abbiati (lo seguiamo da Pasticceri, una dozzina di anni fa) e il pungentissimo genio di Claudio Morganti, abitatore instancabile di testi tratti in scena con lavorazione certosina (il pluriennale confronto con Büchner lo conferma; leggetene qui e qui). Agli applausi per la circense pantomima evocante l’assurda storia di Joseph K., il segugio della mente scandaglia la memoria rintracciando le associazioni tra la gran copia di segni percepiti e gli elementi narrativi di Il processo, opera tra le più celebri di Franz Kafka. E qui s’evidenzia l’incaglio d’uno spettatore borghese (in senso culturale; i mezzi di produzione non li deteniamo…): la condanna a filtrare col raziocinio un fatto espressivo, decretandone l’eclissi degli elementi più materici, pre-logici. Leggendo poi l’ottimo sguardazzo dell’arlecchino Balestri, il quadro si ricompone, col sovrappiù d’ingegnose e plausibili interpretazioni.
Eppure, non tutto pare risolto.
Anni fa, Georges Bataille si chiedeva se i comunisti dovessero bruciare Kafka (La letteratura e il Male: leggetelo), evidenziando la diffidenza per un autore che, mettendo in crisi qualsiasi petizione affermativa, non poteva salvarsi dall’accusa d’essere, implicitamente, contro-rivoluzionario. Il discorso rintracciava poi nell’opera kafkiana un comico spesso ignorato dai lettori postumi, un quid che, pur non negandone il nichilismo, la inserirebbe in un filone absurdista che parte dall’Ubu di Jarry giungendo a Beckett e Ionesco.
Abbiati-Morganti, consapevoli di ciò, approntano così un’opera contemporanea a partire dal ruolo del titolo quale elemento essenziale per la fruizione: denominato Il processo, lo spettacolo apparirebbe rarefatto, elitario, legato alla consapevolezza letteraria dello spettatore; chiamato Circo Kafka, il lavoro dribbla l’obbligo d’una qualche fedeltà testuale, in favore di un’evidente libertà ludica.
Nondimeno, ripensando a Una tazza di mare in tempesta, geniale traduzione di Moby Dick compiuta da Abbiati comprimendo il capolavoro di Melville in 22’ di teatro efficacissimo, materico e portentoso, ci pare che questo Circo, pur bello, delicato, divertente, manchi di qualcosa. Un morso.
Per le vicende di Achab s’avvertiva un dolore genuino, ancorché sorridente; in questo caso, il discorso è come se si arrestasse alla pur ben posta celia: è circo, vero, ma non riusciamo a ignorare l’abrasivo impatto d’una consimile storia sulla pelle d’un imputato innocente; sarà che, in questi giorni, stiamo leggendo Venga con noi. Dagli attentati del ’69 a piazza Fontana di Clara Mazzanti, allucinante racconto d’un processo reale per cui il termine kafkiano parrebbe eufemistico, benché non ignori (anzi!) l’agghiacciante comicità implicita alla pupazzata della giustizia.
In questo circo c’è, senz’altro, Abbiati (incluso l’affaccio sull’abisso del collasso finzionale, quando l’attore simula un incidente che tale non è) e c’è Morganti, nella propensione ficcante, quasi sempre di sfida allo spettatore, ai critici, al mondo.
C’è l’unione di due grandi artisti, che amiamo, ma, forse, è proprio la loro intima differenza a investire, e costituire un limite, per quello che resta, comunque, uno spettacolo da vedere.