Talvolta c’è dibattito, nelle retrofile arlecchine. Il riferimento alla manifestazione Cirk Fantastik, e soprattutto al teatro in senso fusionale, ha innescato un qualche borbottio in redazione, frammisto, invero, a cenni d’assenso. Confermiamo e rilanciamo: il circo, certo circo, può considerarsi teatro (che lo s’intenda latu senso vien da sé), pure gran teatro, non tanto né solo spettacolo, secondo un’efficace e intramontata distinzione che ci vede concordi.
Firenze, parco delle Cascine, dirimpetto all’omonimo ippodromo di galoppo e trotto: sull’altra mano del viale, sorge lo chapiteau temporaneo di Magdaclan (compagnia responsabile dell’iniziativa), attorniato da stand, palco all’aperto e tavolini. Entriamo nel tradizionale e minuto tendone, panche a tribuna disposte su quasi tutto il perimetro: Alessandro Maida e Maxime Pythoud sono già in scena. Allampanati, costumi cremisi quasi casual (in lino). Uguali, non fosse per le scarpe blu dell’uno, a piedi scalzi l’altro, e per i volti: il primo biondiccio, occhi grandi, lesti allo strabuzzo, espressione sardonica; sottile e compunto il compagno, dietro occhiali a montatura rossa.
Ha inizio una partitura equilibristica: i due si doppiano, s’inseguono, eco l’un dell’altro corpo. Il ritmo è condensato nell’articolazione gestuale, dapprima senza tracce sonore. Abilità, non virtuosismo: le figure, sinuose, si snodano, il discorso, nel trascorrere combinatorio, cresce in temperatura, si apre. I bambini respirano coi due danzattori, roteando i capi ad assecondarne le movenze; noi, sguardi rotti nel disincanto, scrutiamo, in cerca di dove vogliano parare gli artisti. Non ci accorgiamo, sulle prime, che il respiro (di attori, bimbi e pure il nostro) si fa collettivo, ostaggio della puntaggiatura coreutica. L’impiego di una traccia musicale (concreta, anch’essa di singulti e fiati) permea la sala e rafforza l’effetto.
Dal corpo libero si passa all’interazione con gli oggetti: tre sfere, poi una più grande. Maida, clown con tratti da bianco, lancia sguardi di sfida al collega specchio, spalla, controcanto. Le sequenze di giocoleria entusiasmano, specie quando entra in scena la sfera d’equilibrio: Maida vi sfoggia una bravura mai slegata dal disegno complessivo. Giocano, i due: con tutto quel che capita loro in mano, riflettori a terra, lampade mobili (una da scrivania, l’altra grande, su una piantana), il faro centrale opportunamente calato. Lo spazio si comprime ed espande, come un polmone pulsante, come un respiro, sino al pezzo forte di Pythoud, con le strepitose, rocambolesche evoluzioni all’interno della ruota di Cyr. Fattori invertiti, prodotto immutato.
Dov’è il discrimine, pensiamo, tra questo circo e la danza contemporanea? Domanda insidiosa, bastevole per replicare ai borbottii (che stimoliamo volentieri). Nella disponibilità di lettura, azzardiamo: il circo dev’essere “aperto” (anche) a percezioni fanciulle, per quanto mai esclusive; altri tipi di performance possono farne a meno, ed esigere il tributo d’una maggior disposizione riflessiva e intertestuale. «Il circo diverte, la danza è pallosa» insinua il Calderoli che è in e con noi: non è vero. Ne abbiamo esempi lampanti. Certo è che l’applauso per Circoncentrique è unanime, protratto e meritato (negli stessi giorni erano in scena pure i pazzi del Tony Clifton Circus: ce li siamo persi con sommo rammarico). È teatro, senza dubbio, e mediamente migliore di quello che spesso vediamo in giro.