Atmosfere che cercano di richiamare un lontano Hopper quelle volute da Arturo Cirillo per il suo secondo approccio alla decadenza borghese di Tennessee Williams. Una camera da letto, quella dei due sposini protagonisti, Maggie e Brick, lo spazio di azione. Un limbo dalle pareti verde petrolio, pateticamente arredato, eco di motel a basso costo piuttosto che di dimora patriarcale. Un letto, una poltrona, un divano e il mobile degli alcolici. Sparsi in giro per la stanza indizi che fanno intuire la dimensione decisamente poco favolistica del matrimonio. Alcolizzato lui, insoddisfatta lei, prigionieri di un universo familiare che pretende come riconoscimento sociale una sregolata procreazione.
È proprio sul vociare stridulo di giocosi pargoli che fa il suo ingresso in scena, al suo esordio teatrale, Vittoria Puccini: Maggie la Gatta. Concitata, nervosa, si aggira per la stanza gridando, un po’ al mondo appena chiuso fuori dalla camera da letto, un po’ al marito celato dietro la porta del bagno, tutto il suo velenoso disprezzo per la cognata matrona e i suoi innumerevoli figli «senza collo». Neanche l’ingresso in scena di Brick, Vinicio Marchioni, caviglia fasciata, aria sofferente e insofferente al contempo, sembra riuscire a placare la protagonista. La Puccini pretende di sembrare furiosa, si sforza di essere isterica, quasi volesse ispirarsi alla Maggie cinematografica di Liz Taylor. Invano tenta di ricacciare dentro L’Oriana, ultimo suo lavoro televisivo, che nella maggior parte dei momenti prende il sopravvento. Liz Taylor parla con la voce della Fallaci che parla con quella della Puccini; un ibrido destinato all’universo del caricaturale becero, con la sindrome che si diffonde ed estende a tutti gli altri personaggi.
Uno dopo l’altro gli attori entrano in scena: grottescamente compiono, come in una stand-up comedy, il loro numero per uscire senza lasciare traccia. Completamente appiattiti o eccessivamente sopra le righe, sfilano rotolando lentamente verso la fine. Il testo stesso si appesantisce, si arena bloccato in una recitazione che non concede pause, caricata e straripante. Neanche Marchioni riesce a liberarsi dal pantano incolore. Succube dell’universo mediatico che lo desidera compagno designato per la Puccini, inserito per l’ennesima volta nella dinamica di coppia con l’attrice, si aggira per la scena senza avere troppo chiaro che cosa fare. Ferito nel corpo e nello spirito, si giostra tra i deliri prodotti dall’alcool e lunghi silenzi falsamente carichi di senso.
Dopo quasi due ore, finalmente, s’intravede la conclusione. La camera da letto, dopo essere stata ritrovo di ogni singolo componente della famiglia, torna a rinchiudere e concedere a moglie e marito un’intimità popolata di menzogna e ipocrisia. Fagocitata dagli eccessi della recitazione e da una regia che sembra non riuscire a mantenere il controllo di ciò che accade sul palco, dell’atmosfera creata da Williams restano solo pochi i avanzi, tutt’altro che sufficienti.