È uno spettacolo prezioso, questo Copenhagen che, da quasi vent’anni, viene portato di teatro in teatro da Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice, con la regia di Mauro Avogadro. Dal travolgente debutto udinese del 1999, questa pièce complessa, stratificata ed efficace, si è inserita a pieno titolo in un “repertorio”, una sorta di piccolo “classico contemporaneo”, assieme ai testi di Arthur Miller, anch’essi di antica frequentazione orsiniana. Pure un critico “difficile” come Franco Cordelli, al debutto, perse il suo aplomb a tale proposito, e lo si può capire.
Tre attori superbi, distinti per generazione, ma simili per struggente forza espressiva, rievocano un incontro, realmente accaduto nel 1941, tra due fisici Premi Nobel: ne esce un dialogo serratissimo sulla funzione positiva e al tempo stesso pericolosa della scienza.
Orsini, sempre più carismatico, è Niels Bohr, scienziato danese celebre per la teoria dei quanti: è lui a dare il via al secolo breve segnato dalla corsa (al) nucleare. Le sue orme saranno traccia per altri fisici, fra cui il tedesco Werner Heisenberg, più giovane (classe 1901), suo discepolo, passato alla storia per la teoria dell’indeterminazione: a interpretarlo, lo straordinario Popolizio, uno dei migliori interpreti del nostro teatro, da oltre vent’anni. Nella parte “laterale”, ma necessaria, di Margrthe, una Lojodice superba: la moglie di Bohr è contraria all’incontro con Heisenberg, in piena occupazione nazista, giacché perfettamente consapevole dell’ambiguità del fisico tedesco.
A stupirci è l’estrema versatilità del testo di Michael Frayn (già celebre per il successo della commedia
Rumori fuori scena): con
Copenaghen, il drammaturgo cambia registro, affrontando efficacemente un classico
dramma di idee, tarlato dal dubbio. La storia è attinta dall’eccellente biografia di Heisenberg firmata David Cassidy, e dall’analisi dei testi del fisico stesso, in cui traspare a più riprese la sua vita.
La regia di Avogadro presenta una scena drammaticamente illuminata, definita da enormi lavagne su cui sono tracciate formule fisiche, disposte a esedra: le affastellate silhouette grafiche sembrano evocare i grattacieli delle metropoli contemporanee. Tutto è sospeso, intriso di tensione. L’incontro tra le due eminenze scientifiche viene affrontato da varie sfaccettature, e i molteplici punti di vista sottoposti a noi spettatori nel corso della rappresentazione fanno quasi pensare a un omaggio alle mille realtà del film Omicidio in diretta di Brian De Palma. Rappresentano l’impossibilità, pure fisica, di determinare l’esatta posizione di un oggetto nello spazio e nel tempo, secondo il celebre (e talvolta abusato) principio heiseberghiano.
Nel personaggio di Popolizio si evidenzia tutto il tormento del fisico vissuto all’interno dell’esaltazione nazista, sino alla disillusione nei confronti della propria «
amata, devastata, disonorata Patria». Per contro, nel Bohr di Orsini troviamo la dignità dello scienziato oppostosi al genocidio, che pure avverte la propria responsabilità nel più grande omicidio della storia, rappresentato dalla bomba atomica. Ordigno frutto anche delle sue ricerche, elaborate a partire dalla luminosa primavera di Copenaghen, tra 1924 e ’27, poi proseguita nei laboratori americani. Come particelle di un atomo che si incontrano e si scontrano, i tre personaggi cercano di dare un senso alle azioni della loro vita, vittime anch’essi di quel nucleo finale di indeterminazione che sta nel cuore delle cose.
La grandezza di questo spettacolo assolutamente da vedere e rivedere, è quella di riuscire a coinvolgere il pubblico, mediamente digiuno di cognizioni scientifiche, in un vorticoso “processo privato” a porte chiuse sulla funzione del sapere nel nostro tempo.