Nel nostro carnet da spettatori speciali, più affastelliamo visioni e meno, lo confessiamo, riusciremmo a tratteggiare il profilo d’un allestimento “ideale”. Benché dotati d’un gusto personale, in effetti non parteggiamo per alcun genere, stile o “chiesa”, il che ci conferma fedeli lettori del John Updike recensore che ogni tanto citiamo. Ci sono, è vero, artisti coi quali avvertiamo sintonia (ciò non esclude che li si critichi), ma se, obtorto collo, dovessimo indicare “cosa cerchiamo” in uno spettacolo, non potremmo rispondere altro che un brivido. Indicazione sommaria, nient’affatto risolutiva.
E giusto un brivido ci ha suscitato, in un preciso istante della seconda parte, il Nudi e crudi assemblato da Serena Sinigaglia (testo di Edoardo Erba, ispirato all’omonimo romanzo breve del britannico Alan Bennett), sfruttando voci e corpi di Maria Amelia Monti, Paolo Calabresi e Nicola Sorrenti. Sino ad allora, un’ordinaria commedia d’umor britannico s’era dipanata sulle tavole del mestrino Toniolo: storia a due d’un matrimonio rodato ai limiti dell’inerziale, lui, metodico, anzi di più, lei, buffa e inquieta, ma d’un’irrequietezza composta, come Betty Windsor saprebbe apprezzare. Alcuni elementi parevano, invero, dissonare, ma potevano comunque considerarsi partecipi di strategie sceniche a ravvivare il racconto: è così per la cornice metafisica in cui un Sorrenti “infernale”, dinanzi un sipario posticcio, si fa imbonitore a dichiarar “l’argomento”, come i servitori nelle commedie classiche.
I coniugi Ransome, sorta di George e Mildred (per chi li ricorda) più agrodolci e concilianti, si trovano, al rientro dopo una serata mondana, derubati di tutto: nudi e crudi, appunto, come la circostante scena cupa, onirica. Situazione da paradosso, ché gli oggetti trafugati sono poi rinvenuti, perfettamente riassemblati altrove, in una divertita circostanza irreale: l’interno è, infatti, ricostituito in ogni minuzia nelle chiare tonalità d’un salotto borghese. Il canovaccio si fa, così, partitura ideale per gli attori: Monti dosa a meraviglia quel distacco donnesco e lumbard che, con le giuste proporzioni, rievoca certi caratteri di Franca Valeri (recitazione “telefonata”, di sapiente cadenza, lasciando precipitare la battuta nel momento di sospensione del discorso); Calabresi ha facoltà eclettiche, ed è un perfetto Teodoro (pensiamo a uno dei protagonisti d’un altro bellissimo romanzo, Dona Flor e i suoi due mariti, del brasiliano Jorge Amado: ci torneremo tra poco), calibratissimo, quasi ingessato; ottimo terzo, Sorrenti, che più volte muta parte, giovane attore cui non difetta nulla, nella notevole elasticità fisica e recitativa.
Tutto scorre quasi normalmente sino a quel punto, quando il dolore occhieggia, con toccante delicatezza, nella scherma drammaturgica, e la sala si sorprende a respirare (anzi, a trattenere il respiro) coi personaggi. È un attimo, un sussulto, subito reintegrato dal fluire comico, ma vale lo spettacolo. Che parrebbe un’europeissima variazione sul tema del citato Dona Flor (ricordiamo Calabresi in un riallestimento di quel romanzo, qualche anno addietro), per l’arguta rivendicazione muliebre del diritto a un brivido (d’altro tipo rispetto a quello di cui sopra) troppo spesso perduto nelle relazioni di coppia a lungo termine.
Chiusura tra gli applausi, meritati, per un modo di far teatro che sa unire divertimento, idee, e, non ignorando la riconoscibilità degli interpreti “famosi”, evita di appiattirvisi. Un’encomiabile rarità.