Un solido impianto registico, fondato su un sodalizio tutto femminile, in cui le attrici tendono la mano alle spettatrici per una serata rosa, una serata di svago, una serata di puro intrattenimento. E come tale va analizzata. Sin dai tempi dei tempi a teatro si va per socialità: vi si giocava a carte o si intrallazzava; solo dopo si è consolidata una connotazione più seria, sofisticata, “borghese”: una certa élite va a teatro per (farsi) vedere, darsi un tono, far capire quanto “ne sa”.
Ma le possibili sfumature del panorama teatrale sono molte, e noi arlecchini cerchiamo di comprenderle tutte. Calendar Girls, pur coi suoi difetti, va annoverato come un prodotto mainstream di buon livello.
Sei personaggi femminili, sei colori, sei caratterizzazioni ben evidenti: questo lo schema di base. Il rosso, simbolo di vitalità e dinamismo, spetta ad Angela Finocchiaro; l’azzurro, calma e tranquillità, allo “zerbino” Carolina Torta; il bianco, legato più alla malattia che alla purezza, è per la vedova Laura Curino; intelligenza e allegria con il giallo per Ariella Reggio; arancione, ottimismo a oltranza, per la hippie, nonché “colonna sonora” live, Matilde Facheris; verde, forza e perseveranza nonché pigmento della dea Venere, per la seducente Corinna Lo Castro. A questo colorato gruppo fanno da contrappunto Noemi Parroni, impegnata con ben quattro personaggi, ed Elsa Bossi (la ricordiamo quale “musa” per il Teatro Del Carretto), dalla sorprendente agilità coreutica: la sua tirannica direttrice, con rapidi movimenti di anca e gambe, regala il “balletto” più esilarante.
L’associazione benefica di cui fanno parte le, ormai, nostre amiche − stanche dei canonici calendari raffiguranti pievi e chiese − decide che per racimolare denaro da dare in beneficienza è giunto il momento di rinfrescare i toni. Decidono dunque di immortalare la loro routine − il lavoro a maglia, il preparare la colazione − con un piccolo dettaglio: l’assenza di indumenti. La risposta rosa a Full Monty piace a tal punto che le signore guadagnano, oltre al denaro, un bel po’ di notorietà, da cui i prevedibili litigi, screzi e incomprensioni.
Un gruppo di brave attrici, ognuna col proprio bagaglio, spesso debitore di esperienze televisive; ne è un esempio Angela Finocchiaro, accusata di essere “sé stessa” anche in questa pièce. Un errore grossolano perché, al di là del consueto portamento − spalle incurvate e passo poco aggraziato − ciò che conta è la straordinaria capacità di rispettare i tempi comici. Qualità che non difetta a tutte le attrici in scena, sicché la partitura comica tiene attiva l’attenzione dello spettatore nonostante le due ore e mezza.
Un’imponente scenografia domina il fondo della scena, una grigia parete con vetrata colorata della canonica vittoriana in cui è ambientata l’intera pièce (sollevata durante i cambi di scena, perché si vedano le colline retrostanti dove le protagoniste sono solite dedicarsi al tai chi). La caduta di stile si ha quando si vuol sempre fare più del dovuto, o del necessario, e in questo caso la nevicata di due minuti ai fini dell’azione scenica è apparsa veramente superflua.
In definitiva, la complicità femminile sta alla base della buona riuscita di questa performance, che può non piacere a un pubblico maschile, a quegli uomini, cioè, che rimarrano delusi da quel “nudo” tanto reclamizzato che resta pudico e celato.