Partiamo dal presupposto che una persona a teatro vada per godere della fruizione di una performance di per sé unica e di un certo spessore. Ipotizziamo pure che, se lo spettacolo deriva da un libro, non si voglia essere influenzati dal cattivo spirito del paragone. Aggiungiamo l’innocenza di colui che non sa, minimamente, chi sia e cosa abbia fatto il regista prima di questo spettacolo. Tirando le somme, il giudizio è positivo: un’ora e venti minuti dilettevoli sul tema del sogno americano.
«Chi si accontenta, gode» professa un detto, ma in certi casi non siamo così convinti.
È quello di Amerika, regista Maurizio Scaparro, allestimento attinto dal celebre e omonimo (bel) romanzo incompiuto di Franz Kafka, dove un giovane emigrante tedesco si ritrova catapultato nel Nuovo Continente costretto a fronteggiare i travagli per la ricerca della felicità. Il regista utilizza il libro come pre-testo per raccontare nuovamente il sogno americano, cosa che aveva in qualche modo già realizzato con Viviani Varietà, la scorsa stagione, protagonista Massimo Ranieri. Il progetto, infatti, è il medesimo: una pièce che racconta l’emigrazione oltreoceano, il tutto condito da stacchetti musicali. Per il sogno kafkiano si riprendono i charleston e la musica anni Trenta per poi passare a brani yiddish e a un velato jazz, senza tralasciare (inconcepibile per il regista romano) la tradizione napoletana con Santa Lucia. Il romanzo è lacerato, vengono omessi personaggi di spicco come il fuochista (lo stesso scrittore ceco inizialmente voleva dare questo titolo al romanzo) per aggiungere invece parti musicali (non richieste). Si ha l’idea che dell’opera kafkiana si sia ripreso un vago spunto per farne un altro show “American Dream”, infarcito di musica “alla Grande Gatsby”.
A fronte di scelte opinabili sul piano strutturale, l’orchestrazione risulta, invece, di grande spicco: tre musicisti tanto abili quanto ben inseriti, al punto da costituire un valore aggiunto anche in chiave drammaturgica.
Funzionale e pregnante la scenografia del grande (e compianto) Emanuele Luzzati: un paravento di semplici pannelli scorrevoli che divengono innumerevoli porte, aprendosi, chiudendosi per un gioco di incastri spaziali e spostamenti pregevolmente messi in pratica dagli attori in scena, alla stregua di un tetris.
Risulta invece ingabbiato nei movimenti il giovane Giovanni Anzaldo (lontano il ricordo di Il capitale umano, film di Paolo Virzì che lo vide emergere per la sua peculiare interpretazione): gesti secchi, puliti, cadenzati e calcolati sin nei minimi dettagli, che relegano il ventottenne attore a mera marionetta del regista.
Assonanze ed echi del “sogno americano” si ripercuotono reciprocamente fra Amerika e Viviani Varietà come se il primo allestimento fosse la naturale prosecuzione dell’altro: dalla traversata oltreoceano alla vita dopo l’attracco.
Amerika resta uno spettacolo ben fatto e costruito: il sospetto è di una “coazione a ripetere” da parte del suo ideatore, pratica pure ammissibile in ambito artistico, ma che, altrettanto plausibilmente, può sollevare dubbi nell’osservatore un poco più scafato.
Del resto:
«Chi si contenta gode.
Non è vero».
(Roberto Gervaso, La volpe e l’uva, Milano, Bombiani, 1989)