Il viola è un colore carico di significato (spesso infausto) nel mondo del teatro: accostandosi al mondo di Dino Campana, però, le cose cambiano. Si arricchisce di significati, diventa il colore della malattia, della sdegnosa addizione appuntata sul manoscritto del poeta, della somma delle tonalità più evocate (il rosso e l’azzurro, come i capelli e gli occhi di Dino). Ed ecco che Viola diventa il titolo dello spettacolo di Elisabetta Salvatori in cui si (ri)evoca la vita del poeta mugellano.
Nella narrazione dell’attrice sono incastonate alcune poesie, declamate o addirittura cantate, a esaltare la musicalità dei versi, il ritmo delle strofe e il suono delle parole. La voce sembra sempre meravigliata di fronte a quell’esistenza “straordinaria come lo sono tutte le esistenze“. C’è calma, nel racconto: sapienza scenica mescolata a un timore reverenziale verso il soggetto affrontato. Il volto baffuto di Campana è sempre sul fondo, che ci osserva con quegli occhi che, con il passare dello spettacolo, si arricchiscono di significato. Sulla sinistra c’è Matteo Ceramelli, violinista che punteggia di note i passaggi più significativi del percorso di Salvatori.
Nel viola della notte odo canzoni bronzee
Dino Campana nasce nel 1885 a Marradi, nel Mugello: la bellezza di questa terra è spesso evocata, fin dall’inizio, per il paesaggio e per le cave di pietra serena. Un po’ ironico a pensarci, perché Dino, sereno, non lo fu mai: amava il buio, che probabilmente lo ricambiava. L’oscurità era sempre presente in lui, impulsivo, rissoso e sanguigno: gli costò l’affetto materno, l’amore di Sibilla Aleramo e, infine, lo portò a diversi internamenti in manicomio, l’ultimo di quattordici anni fino al 1932, quando la sifilide lo condusse alla morte. La pazzia lo segnò anche in ambito poetico: ancora nel 1948, per Saba era “matto e solo matto, scambiato da molti per un vero poeta“. Così non venne mai etichettato, sfuggendo a una precisa collocazione di genere: non fu crepuscolare né avanguardista, sprezzando, anzi, i futuristi fiorentini.
Il testo della stessa Salvatori è parziale e partigiano: la vicinanza emotiva con il poeta è dichiarata implicitamente attraverso la dolcezza della voce. Il racconto è quello di un Dino Campana, quello letto da Elisabetta Salvatori, in cui non conta tanto la filologia, quanto invece un’effettiva empatia con l’oggetto narrato.
L’attrice, mentre lo evoca, lo guarda con quell’affetto materno che il poeta, probabilmente, non ricevette mai da colei che lo mise al mondo. Sta dalla sua parte, incondizionatamente, contro le pressioni dei genitori, contro chi lo sprezza, contro il destino crudele che lo perseguita. Un affetto sincero che vale più di mille note a pié pagina.