È sempre dolce, mai sdolcinato, e umano, lo sguardo che Marco Azzurrini getta sulle vicende scovate nei meandri della microstoria locale, pulsante sottobosco che abbraccia tanto le balere quanto le palestre pugilistiche di metà secolo scorso, passando per il Sessantotto, vissuto e cantato da gente che, per fortuna, ancora ci può raccontare di quei formidabili anni (così per Mario Capanna prima d’imbarbogire) . Si potrebbe dire che il discorso teatrale dell’attautore coincida con un agrodolce inno al Novecento, alle sue gioie, ai suoi dolori, filtrati da una lente bonaria: è comunque piacevole calarsi nella narrazione di quei mondi, così vicini, così lontani.
A questo giro, si cavalca equivocamente l’onda del dantismo contemporaneo, in un’Italia che celebra i suoi personaggi ricordandone la scomparsa (lo nota Andrea Cosentino in Un Dante corretto bravo grazie, visto a luglio in Tempi moderni): equivoco palesemente dichiarato in avvio di recita, giacché quello del titolo non è il ghibellin fuggiasco, bensì tal Dante Fiorentini, pisano di ‘ampagna, Coltano per la precisione, che nella finzione condivide con l’omonimo la propensione ai versi poetici. La provincia toscana, nei secoli, ha visto svilupparsi varie forme di poesia popolare: i maggi drammatici, spettacoli “di popolo” a coinvolgere decine di paesani in testi rigorosamente nuovi ogni anno, e la ben più individualistica pratica dell’ottava rima, attività tutt’altro che solitaria, legata com’è(ra) alla matrice del contrasto, e dunque per assunto alla presenza di almeno un’altra voce con(tro) cui inanellare stanze di otto endecasillabi all’improvvisa.
In uno spazio spoglio, eccolo, il Dante “pisano”: racconta l’impegno nella realizzazione del maggio portato in giro grazie a piccole tournée locali, salvo poi lasciare tutto e partir per l’Albania (aprile 1939, l’anticamera del disastro che il disastroso governo fascista stava apparecchiando a sé e al paese intero), convocato a difendere il tricolore. Una picaresca sequenza di piccole avventure, minute facezie, con spostamenti indicati dalle didascalie che, a mo’ di cartelli stradali (realizzati da Antonio Calandrino), ci informano immancabilmente della distanza da casa, Pisa. Ogni traslazione annunciata da un’ottavina, ben portata dalla voce di Azzurrini, che mette in campo le tappe del viaggio bellico (neppure un morto, fuorché uno, per incidente a un otturatore): Tirana, Friuli, Francia, Africa e persino Scozia, da prigioniero. La fonte è Soldato semplice Dante, frutto letterario (Edizioni Il Campano, Pisa) dei racconti, una volta a veglia, del “nonno Dante”, morto ultracentenario all’inizio di questo 2021.
Ottima l’idea di fonder canto in rima, narrazione à la Walter Benjamin (mirabili le pagine del filosofo sul racconto, forma antica, contrapposto all’informazione, che non forma né informa, dell’evo contemporaneo) e la scanzonata toscanità dell’attore; a mancare, nell’impasto generale, è forse una sufficiente dose di dramma, pena l’involontario (e politicamente ambiguo – benché alieno da Azzurrini) propalare il mito frusto degli italiani brava gente (antidoto, il bellissimo Acqua di colonia di Elvira Frosini e Daniele Timpano visto e non recensito – nostra culpa – qualche anno fa). Lavoro di buone premesse, da rodare, nell’augurio che imbocchi la strada d’una verace, corroborante amarezza, senza perdere il sorriso (pensiamo a certe cose guerresche di Cochi e Renato, prima, e di Pozzetto da solo poi, il film Porca vacca; per non dir del Monicelli di Le rose del deserto e, ancora meglio, La Grande Guerra): ingredienti che contribuirebbero a rendere più completo, multiforme, uno spettacolo comunque da apprezzare.