Non tutta la musica nasce per il ballo. Questa frase ci attraversa il capo a risalir la china del rosato confetto che è la sala del Metastasio, esaurita la prima nazionale di Democracy in America: ultima firma di Romeo Castellucci, vale a dir Societas, vale a dir la storia recente della ricerca teatrale italiana. Sfiliamo volti noti (?!) tra attori e critici, maschi femmine e teatranti, interrogandoci su una performance ieratica, tortuosa, arcigna, muta come le fioche didascalie che la punteggiano a mo’ d’enigmatici inserti sapienziali, complice la faticata leggibilità.
Lo sguardo è rivolto oltreoceano, anzi no: ché l’America evocata nell’anglofonia del titolo è quella filtrata dall’europeissimo Alexis de Tocqueville, intellettuale parigino, famiglia aristocratica scampata d’un soffio al filo di Madame Guillotine, ravvicinato osservatore del processo insidioso e affascinante che fu la (ri)fondazione democratica americana, negli anni Trenta ottocenteschi. Terra promessa di puritanesimo ingenuo e violento, bigotto e intransigente, il Nuovo Mondo presto s’affrancò dal Vecchio, distanziandosene per la naturale propensione al numero, al racconto, al pratico, elementi che il millenario pensiero europeo aveva da tempo precipitati in una crisi irreversibile.
Si nega alla perspicua narrazione, e non ci sorprende, il tetro dispositivo di Castellucci, benché l’insistito impiego di testi stagliati nell’oscurità rappresenti comunque innegabile elemento comunicante, alternato a puntuali sequenze coreutiche: l’incipit vede uno sciame di figure in bianco, munite di sonagli e bandierine, ciascuna recanti una lettera; compongono il titolo dell’opera, sfarinandolo poi in anagrammi. Ideina. Arretrato, un corpo femminile, nudo (Giulia Perelli) si ricopre di sangue. Vengono meno sguardo e ascolto nel reiterato e verticale scorrer di velami, nell’impianto sonoro che attinge a glossolalie pentacostali, il parlare le lingue dei nuovi cristiani settecenteschi tuttora praticato, a rumori concreti, in una composizione d’agghiacciata solennità, tra orrore e smarrimento.
Irrompe la sequenza drammaturgica: una coppia di pellegrini (Olivia Corsini en travesti, oltre a Perelli) si trova alle prese con la fame e l’idea d’un dio da pregare per la salvezza o bestemmiare per l’assenza. La straziata hybris muliebre sfida l’idea d’un creatore ormai sottrattosi agli umani e, con esso, il tramonto della plausibilità del tragico, in quella che rappresenta, dopo millenni d’invecchiamento politico-culturale, un possibile nuovo inizio, solo in apparenza assimilabile alla fondazione democratica ateniese. Dio non c’è, e, se c’è, si ritira, abbandonando l’uomo alla meschinità del suo destino, nel deserto di un’esistenza inconoscibile, inconcepibile, come i quadri d’estetizzante sfocatura a susseguirsi in scena, tra coreografie mute e addensati grumi testuali.
È la Societas, bellezza: prendere e lasciare. Non c’è spiega: se il teatro è vedere le cose che sono nascoste, Castellucci non cede certo alla tentazione di svelarle o renderle fruibili, anzi. E i molteplici schermi calati in proscenio o sul fondale ci paiono alludere alla liquida opacizzazione del nostro stesso atto di guardare, senza centro né oriente, senza fiato o speranza. Si resta interdetti, irretiti dall’orditura scenica che, del resto, palesa un respingente compiacimento, da salmo segreto recitato per un’accolita d’iniziati. Manca del tutto un qualsiasi umorismo: non tanto la spezzatura ironica a mandar tutto in vacca (sarebbe fuori poetica e pure improprio), quanto la facoltà d’un discorso nell’immaginare di minar sé stesso, farsi carico pure del proprio fallimento/disfacimento.
Non tutta la musica nasce per il ballo, senz’altro è così, ma la netta sensazione d’incompiutezza non ci sembra da imputare alla nostra frustrazione di danzatori mancati. Buio.