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Il Teatro Verdi di Pisa, dopo l’ambizioso progetto Una gigantesca follia (quattro anni orsono) rimane legato al mito di Don Giovanni e alla sua incarnazione più riuscita: l’opera di Mozart e Da Ponte. Per questo allestimento si è scelta Cristina Pezzoli a curare la regia ed Erina Yashima alla testa dell’Orchestra Arché. La ricerca di uno sguardo femminile sul materiale problematico della trilogia dapontiana è – almeno sulla carta – molto sensata e infatti negli ultimi tempi si incontrano diversi progetti in questo senso. In questo caso, però, rimane solo un’idea non declinata, o almeno questo traspare da una prima visione: sarebbe forse necessaria una seconda per intravedere il disegno registico nella sua essenza.
Il palcoscenico è nero, spoglio e occupato da una pedana circolare ad accennare un’ambientazione circense vagamente ricorrente durante tutta l’opera. Si ripropone la bipartizione semantica dei personaggi principali, con Don Giovanni a fare da tramite: i nobili effettivamente vestiti come tali, i popolani (Leporello, Masetto e Zerlina) in vesti circensi. Al di là dei costumi, però, i ruoli sociali non si traducono in questo nuovo mondo che Pezzoli costruisce in scena. Intorno ai personaggi che cantano c’è sempre un gran via vai di azioni secondarie, che spesso diventano addirittura primarie per complessità e centralità in scena. L’ambientazione poco definita e le continue distrazioni distolgono lo sguardo (dello spettatore, ma anche della regista) dalla caratterizzazione dei personaggi, tanto che in punti chiave dell’opera, su cui la regia deve fare delle scelte, è difficile individuare una visione: Donna Anna era almeno in parte consenziente con Don Giovanni? Qual è il percorso di redenzione di Donna Elvira? Don Ottavio è un amante eroico o un rammollito messo lì per far risaltare Don Giovanni?
Resta il sapore amaro di un’occasione sprecata, perché alcune idee interessanti non vengono tematizzate in modo organico. Pezzoli, insieme a Giacomo Andrico che firma scene e costumi, offre immagini di grande impatto visivo, utilizzando le ombre, i corpi imbiancati e una selezione di ballerini del Nuovo Balletto di Toscana. La regista non ha paura di disarticolare la drammaturgia, creando nuove situazioni, ambienti e rapporti che potrebbero permetterle di costruire un Don Giovanni inedito. Una scelta coraggiosa (anche se accresce sensibilmente la durata dello spettacolo) è la gestione originale dei recitativi con dilatazioni di tempi, giochi di microfoni e suoni campionati per ricercare effetti cupi e taglienti: in questo, Pezzoli rende bene il carattere di un “dramma giocoso” piuttosto dark. Tutto ciò, però, non si traduce in una chiara visione dell’opera, restando un collage di stili contemporanei (certe suggestioni potremmo trovarle in spettacoli di Roberto Latini, Bob Wilson, Luca Ronconi) senza organicità.
La parte musicale, pur ben condotta dalla bacchetta di Yashima, sembra penalizzata: le numerose azioni secondarie, in cui i cantanti sono spessp coinvolti, sono una delle cause di uno scollamento ritmico tra buca e palcoscenico. Alcune voci (Diego Godoy, Sonia Ciani, Raffaella Milanesi) hanno regalato un’ottima performance, ma altre (su tutte il Masetto di Francesco Vultaggio) sembravano faticare. Non è un caso, probabilmente, che siano andati meglio i cantanti meno dinamizzati da Pezzoli, mentre a Vultaggio era chiesta una recitazione più vivace. Anche su questo aspetto, forse, sarebbe necessaria una seconda visione, ma ce la risparmiamo: per quanto sia sempre rinvigorente vedere una croce in fiamme (nel finale), questo non basta per attraversare uno spettacolo senza ritmo per quasi quattro ore.
Applausi generosi per cantanti e direttrice; fischi nell’aria per la regista (che infatti li annusa e non esce, nonostante il debutto).