In Italia, si tende ad arrivare sempre un pelino in ritardo su anniversari e ricorrenze. È per questo motivo che nel 2019 vediamo il pullulare di rappresentazioni legate al Don Chisciotte, nonostante il 400° anniversario della morte dell’autore si sia festeggiato tre anni fa in terra spagnola. Si parte dalla riscrittura dalle tinte comiche Don Chisci@tte di Arca Azzurra con Alessandro Benvenuti e Stefano Fresi, alla versione carrettiana di Ultimo Chisciotte di Maria Grazia Cipriani, fino ad arrivare a Don Chisciotte nell’adattamento di Francesco Niccolini. Ed è proprio a quest’ultimo allestimento che abbiamo assistito, nella bella cornice del Teatro Nuovo di Verona, e di cui vi parliamo piacevolmente colpiti.
Don Chisciotte è ambientato in una scenografia che si scompone e ricompone plurime volte, aiutata da fondali in tessuto, che scendono e risalgono per celare e rivelare nuovi spazi: una struttura scenica che si fonda sull’immaginazione dello spettatore (potere indiscusso della scatola magica) che si sposa alla perfezione con la fantasia del cavaliere errante. Un plauso va alla meravigliosa figura di Ronzinante, cavallo meccanico mosso dal notevole Nicolò Diana posizionato al suo interno, che ne gestisce gli spostamenti (grazie all’ausilio di ruote posizionate al termine delle zampe) e i movimenti del muso, andando a sottolineare le sfumature espressive dell’animale, oltre a cenni con orecchie e coda, senza tralasciare la simulazione del respiro e del nitrito. Di altra fattezza, invece, l’asinello o ciuchino, indossato da Serra Yilmaz nel comico ruolo di Sancho Panza, la quale inserendo gambe e corpo all’interno di una specie di ciambella dall’aspetto del quadrupede, si sposta ciondolando da un lato all’altro del palcoscenico. Alcuni elementi tratti dal teatro di figura si rivedono nella scena in cui Don Chisciotte viene calato nel pozzo dove, attraverso forme in cartoon di donne e sagome strane, mosse da attori nerovestiti, si entra in uno spazio onirico e fatato; o ancora nella battaglia con il cavaliere oscuro (che ricorda alcune statue dal soggetto equino di Igor Mitoraj), dove questi è suddiviso in varie parti, agite da performer ancora in nero, che si separano e si uniscono ogni qualvolta ricevono un fendente, in una vera e propria danza bellica.
Il romanzo di Cervantes viene ripreso e alleggerito in ogni sua parte, dando ai quattro personaggi – che fanno da sfondo – ruoli diversi ma sempre con un compito specifico, come per esempio quando, in proscenio, si trovano a descrivere le peripezie del hidalgo con il suo fiero scudiero, quasi ad adempiere alla funzione della rhesis del teatro greco.
Battute giocate sul riso, grazie allo stretto rapporto tra Boni e Yilmaz, accresciuto da una mimica fortemente espressiva di lei, in contrasto con la corpulenta voce impostata di lui; o ancora la serietà nella visione fantastica del Don in antitesi con la cruda realtà dello scudiero. Un’enorme pala di un mulino a vento fuoriesce da una quinta facendo urlare il nostro cavaliere contro ipotetici giganti da sconfiggere, riconsegnando allo spettatore una nuova immagine, fortemente espressiva, della celebre scena letteraria. La poesia di Cervantes non manca, come del resto il gioco immaginifico che attraverso le parole di Don Chisciotte diventa reale, facendolo da un lato passar per pazzo, mentre dall’altro rendendolo autentico nella sua follia. Don Chisciotte è un uomo con la paura di morire e che prima di concedersi a un sonno eterno, vive i suoi ultimi istanti nel miglior modo possibile: come un vero eroe cavalleresco.
Un finale aperto ci permette di porre lo sguardo non più su un cavaliere errante, ma su un uomo, che può essere ora un combattente in guerra, ora uno studioso costretto ad abiurare le proprie scoperte.