Non proprio un inizio, questo ottobre: recite isolate, non accolte in una più istituzionale “stagione”, di fronte all’incertezza a programmare un inverno ancora ostaggio del virus. Alla Pergola si approfitta per proporre The Dubliners, spettacolo di Giancarlo Sepe atteso a Firenze un anno fa, ma strozzato dal secondo giro di chiusure. Il soggetto joyciano è dichiarato al punto da non tradurre il titolo originale, come neppure il testo, alla ricerca di un suono che evochi più della parola: il gioco di Sepe è tutto imperniato sulla suggestione della musicalità e dell’immagine.
La platea è svuotata dalle poltroncine di velluto: il pubblico è ospitato quasi tutto nei palchetti e in una ventina di sedie sul limite della sala. Al centro dello spazio lasciato libero, un lunghissimo tavolo si proietta verso il palcoscenico quasi spoglio, collegato alla platea da una scalinata. In questo enorme spazio scenico una compagnia di quindici attori si muove come un organismo in perfetta sintonia che ora si compatta, ora si sfalda; ora ognuno racconta una storia, ora ballano aumentando l’intensità al solito passo. Pur coltivando l’individualità degli attori (sempre riconoscibili anche se non riconducibili a uno specifico personaggio), Sepe costruisce una massa che dà vita a potenti momenti coreografici, come il risveglio degli attori, che a inizio spettacolo troviamo sdraiati in platea, mani sul petto come defunti. Le musiche di Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team, unite all’uso delle luci di Umile Vainieri, creano segmenti di grande impatto visivo, acustico ed emotivo. Solo Pino Tufillaro è estraneo al branco, come il suo personaggio è estraneo ai racconti di Joyce: interpreta un ipotetico «ministro inglese», simbolo del giogo politico, ma anche interiorizzato. Lui introduce lo spettacolo, lo guarda dal suo trono sul palco e catalizza l’odio impotente dei dublinesi che cercano di ucciderlo nel sonno, ma (come Amleto) vacillano perdendo l’occasione. Non solo Shakespeare: spesso la regia di Sepe riecheggia chi prima di lui ha coltivato la specificità teatrale. Gli oppressi di questo dramma si muovono come nell’universo beckettiano di Maguy Marin; la ricerca della silhouette in controluce evoca le pose in Bob Wilson; la sincronia della massa di attori sembra frutto delle prove di Emma Dante; l’uso della parola come suono, spesso con voci che si sovrappongono in un’orgia di storie, sembra la riproposizione in prosa dei concertati operistici.
Questi dublinesi sono dinamicissimi, pieni di rabbia e spirito d’iniziativa, ma la quotidianità, la fame e il dominio inglese vincono sempre sui loro tentativi di sovvertimento. Diviso in due parti, tratte da due racconti della raccolta di Joyce (The dead e The Ivy Day), lo spettacolo traduce il senso profondo dei dannati irlandesi, riportando solo alcuni echi della trama. Questa messinscena propone un immaginario creato con un linguaggio specificamente teatrale, modus operandi in apparenza ovvio, in realtà raro. Si danno spesso, ahinoi, trasposizioni teatrali (magari da film) che si limitano a copiare non solo il contenuto, ma anche lo stile del medium originale, dando vita a una “televisione dal vivo” che sacrifica le potenzialità della scena sull’altare della leggibilità. In quei casi si mortifica lo spettatore: tanto valeva che restasse sul divano (e, spesso e volentieri, ci resta). Un teatro succube di altri linguaggi rischierà di perire nella fase post-covid: per fortuna esistono spettacoli come questo The Dubliners a ricordarci il senso del teatro, la sua specificità e perché vale la pena uscire dalla propria caverna.