Entrando nella sala – un’ex carrozzeria che non vuole nascondere il suo passato con quinte o fondale – ci aspettano due figure nervose e incappucciate, una in attesa, vestita da sposa, l’altra in un ansioso andirivieni al margine della scena, mentre temporeggia prima di indossare il frac con cui presentarsi alla sposa. Lui entra nel quadrato dove si trova lei e capiamo che sono Ulisse (Giandomenico Cupaiuolo) e Penelope (Anna Carla Broegg), circondati da un mare di palloncini azzurri: sarà questo il ring per il loro testa a testa. Al centro un tavolo con dei fogli, a dare l’impressione di un contratto di divorzio in attesa di essere riletto e firmato. Si celebrano allo stesso tempo ricongiungimento e resa dei conti, matrimonio e distacco: il momento tanto atteso (il ritorno dell’eroe) che diventa subito la cruda presa di coscienza della distanza incolmabile.
Ulisse porta in dono il libro che racconta il suo viaggio, ma a Penelope non basta, non interessa una storia che non la contempla se non come oggetto della quête. Poi scopre di Calipso, e allora lo sposo cerca di distrarla con la storia di Polifemo. La schermaglia smaschera l’inettitudine di Odisseo, abituato a un mondo in cui è solo lui ad avere spessore, e si meraviglia che Penelope non sia euforica vedendolo, che non cada ai suoi piedi e non voglia ascoltare le vicissitudini dello sposo, dimenticando le sue. L’allargamento del punto di vista per dimostrare l’androcentricità della cultura occidentale non è certo operazione in sé originale: in questo spettacolo è interessante soprattutto lo iato tra la condizione dei due, lui con le radici ancora nel mito, lei già novecentesca e relativista. In DuePenelopeUlisse il gioco ritorna da dove è partito, con Penelope che, pur divincolandosi dall’appiattimento di mero obiettivo, resta comunque schiacciata su Ulisse: quando lui non c’è lei non dorme, fissa l’orizzonte, al massimo scrive un diario. Più consapevole, in questo senso, la versione di Carol Ann Duffey, poetessa inglese che nella raccolta La moglie del mondo (in cui dà voce alle consorti degli uomini famosi, con ironia e originalità) evoca una Penelope che si è rapidamente emancipata, ed è quasi seccata dal tardivo ritorno del marito.
La drammaturgia, della stessa Broegg, viene messa in scena quasi come in una prova, con il costante intervento, dalla postazione audio, di Pino Carbone. Il regista interviene a fermare le scene quando si allungano troppo, a dare un feedback agli attori, ma soprattutto a fare da mediatore con il pubblico: un po’ narratore, un po’ guida alla poetica del discorso, spiegandoci – per esempio – come si sono posti il problema del testo omerico. I due personaggi spesso si rivolgono al demiurgo, per chiedergli di salvarli da una situazione drammaturgica scomoda. L’interna consapevolezza del dispositivo scenico è sottolineata sempre dai microfoni che i tre utilizzano sempre per parlare anche se sono vicini (a volte non davvero amplificati). Anche la quarta parete cade in questo gioco teatrale: quando (molto spesso) Ulisse/Cupaiuolo è in difficoltà di fronte a Penelope/Broegg, cerca di sdrammatizzare con battute goffe cercando sostegno almeno nella platea.
Solo nel finale, indossato nuovamente il passamontagna e scambiati finalmente ruoli e posizioni, i due riescono ad amarsi l’uno nei panni dell’altra, in un gioco di rispecchiamento ed empatia: nel silenzio, resta nuda la banalità di un amore che si consuma.