A Vicopisano arriviamo attratti da una manifestazione giunta alla sua quinta edizione, la spensierata – ma tutt’altro che irresponsabile – Festa Dèi Camminanti (per chi non la conoscesse, consigliamo un’occhiata al sito), ignari del fatto che di lì a poco saremmo stati testimoni di un evento del tutto inaspettato, un’incursione teatrale, così da programma, alle sue primissime repliche: La panne di Valentina Bischi. La riscrittura dall’omonimo romanzo di Friedrich Dürrenmatt approda così all’interno delle ex carceri vicariali del piccolo borgo toscano, che, con l’atmosfera claustrofobica e le pareti intrise di storia (è letteralmente vietato toccarle, per le frasi ivi scritte ad opera di antichi detenuti), paiono una location tra le più adatte a ospitare la messinscena di un cupo racconto dai sapori kafkiani.
In questa circostanza così peculiare viene introdotta nello spettacolo una nuova figura, sorta di apparizione dallo sguardo vitreo ancorché penetrante: è infatti nelle vesti di una lugubre cameriera dall’abito nero che Francesca Sardella accompagna silenziosamente il pubblico nei meandri del palazzo sino a una cella nuda, e lo fa accomodare attorno e nei pressi di un tavolo adornato di bicchieri e moccoli accesi, quale ospite di un notturno convivio. Alla sola luce di candela si apre una minuscola porticina di legno da cui emerge una seconda figura in nero, il volto coperto per metà da una maschera scura dal naso adunco, plasmata in cartapesta dalle sapienti mani di Ferdinando Falossi: Bischi, attrice romana con solide basi nel teatro di narrazione, si siede a capotavola ove resterà per la maggior parte dello spettacolo vestendo i panni di un oscuro e dimesso oste a far da narratore onnisciente.
La vicenda è quella di Alfredo Traps, “uomo semplice” dai tratti apparentemente poco significativi, che a seguito dell’imprevista panne dell’auto si ritrova a cenare in compagnia di ex uomini di legge che lo coinvolgono, quale sprovveduto imputato, in un surreale quanto inquietante processo per omicidio condotto tra una portata e l’altra al limite tra finzione e realtà. La collocazione del pubblico attorno a un tavolo quale luogo centrale della rappresentazione assume così evidenti intenti metateatrali; e se la scrittura di Dürrenmatt ci lascia fino alla fine nel dubbio su dove si collochi il confine tra gioco e vita reale, anche le scelte recitative dell’interprete principale assecondano questa ambiguità. Come i personaggi del testo, anche il suo narratore riesce contemporaneamente a spaventare – poiché creatura diversamente umana connotata dalla maschera in stile Commedia dell’Arte – e ad affascinare: con le parole cadenzate, la voce suadente, lo sguardo preciso e acuminato, Bischi crea una suggestione che permea l’aria rendendola densa e che impedisce agli astanti, una volta agganciati, qualsiasi distrazione. All’altro lato della stanza, una Sardella al limite dell’autistico esegue una muta controscena dai gesti sporadici e minuziosi, a renderci testimoni di un altrove irrazionale e ossessivo.
È la stessa messinscena a risultare così medaglia dalla duplice faccia: se da un lato, infatti, il calore delle fiammelle si fonde armoniosamente con la sapiente arte affabulatoria di Bischi nel tentativo, perfettamente riuscito, di trascinare il pubblico all’interno della storia, la freddezza diafana dello spettro incarnato da Sardella crea distanza tra la vicenda narrata e il pubblico. Il risultato è uno spettacolo avvincente dal gusto amaro, che riesce al contempo ad accogliere e a gelare il sangue con la stessa, determinata efficacia.
A fine serata, la giovane attrice e autrice (tuttora impegnata nel portare in scena il suo precedente lavoro, Le minne di Sant’Agata) ci informa di prevedere per La panne prossime aperture a contaminazioni di musica elettronica. Nonostante il timore che l’eloquente essenzialità che contraddistingue lo spettacolo possa, nell’aggiunta, venir meno, non dubitiamo nella buona riuscita dell’impresa, augurandoci di poter replicare la visione.