Ti regalo la mia morte, Veronika di Antonio Latella, tratto dalla pellicola del 1982 Die Sehnsucht der Veronika Voss di Rainer Werner Fassbinder, pone l’accento sull’alterazione psichica della protagonista.
La scena si apre con un’emaciata Veronika (Monica Piseddu, Premio Ubu 2015 come migliore attrice anche per il presente allestimento), dotata di una voce notevole, che entra in un cinema durante la proiezione di un suo vecchio film. Poco dopo, arrivano gli altri attori con un costume di candidi scimmioni: sorta di coro tragico, che di classico ha ben poco, anzi forse è più grottesco; tutti (Valentina Acca, Estelle Franco, Caterina Carpio, Nicole Kehrberger, Fabio Pasquini e Maurizio Rippa) pronunciano le medesime battute che risuonano quasi distorte: il tutto è strano, ma non strano nel senso di “aperto all’insolito, al nuovo”; strano e basta.
Dopo la scena d’apertura c’è l’incontro con il giornalista Robert (inizialmente tra le poltrone della gradinata) e, in seguito, la narrazione prosegue con la storia d’amore fra i due protagonisti e il rapporto fra Veronika e la sua neurologa, che dissangua economicamente la paziente, aspettandone la morte. Un momento interessante, perché porta sul palcoscenico l’alterazione psichica della protagonista, è quello successivo alla scena in cui a Veronika viene somministrata una dose di morfina dalla dottoressa Katz e dall’assistente (Estelle Franco e Nicole Kehrberger, entrambe rimaste in lingerie dopo essersi spogliate del costume): lo spazio diventa l’apoteosi dell’avere la scimmia (forse così si spiega il coro iniziale), se per scimmia si intende uno stato di coscienza alterato; la musica imperversa assordante, le luci da discoteca disorientano lo spettatore e gli attori si lasciano andare a una danza terrificante.
L’intreccio segue quello del film, tranne nel finale, che in qualche modo va oltre la morte di Veronika. Il regista “disturba” anche Čechov; a dire il vero lo chiama, ma lui non sembrerebbe arrivare; sicuramente non ci possiamo aspettare che Čechov giunga tramite la lentissima discesa di un ciliegio in fiore (scene di Giuseppe Stellato) nel mezzo di una sequenza con alcune donne vestite in modo vagamente fine-ottocentesco e un troppo giovane Firs con la pistola di Epichodov. Fatto sta che in questo giardino cechoviano rappresentante il mondo dei defunti e abitato dalle eroine fassbinderiane, a un tratto arriva Robert che facendo la cronaca finale dell’ultima partita dei mondiali del ’54 (Germania Ovest-Ungheria 3 a 2) e, dopo aver scambiato alcune battute con il maggiordomo che gli spettatori non hanno avuto modo di sentire per lo scroscio di pioggia diventato improvvisamente rumoroso, prende la pistola portagli dal domestico su un vassoio e, finalmente, si uccide: conclusione mal riuscita di uno spettacolo mal pensato.
(di Edoardo Altamura)