In armatura l’avevamo lasciato, poco più d’un anno fa, e in armatura lo ritroviamo adesso, Alessandro Certini, danzattore toscano d’acuta indolenza frammista a un sagace senso per la costruzione scenica. Allora, fine agosto 2014, eravamo sulle mura di Lucca (Ring Festival, dedicato all’arborato cerchio) madide di pioggerella estiva: Heavy Metal, performance breve e ancora da farsi, di clangori in paramenti bellici e alcuni absurdismi successivamente, ci han detto, meglio registrati.
Adesso, il cimento è di ben altro conio: tradurre a teatro Il cavaliere inesistente di Italo Calvino, terzo (e forse migliore) episodio della mirabolante e paradossale trilogia araldica dell’autore d’origine e adozione sanremesi, è impresa in sé eroica e già meritevole di plauso.
Il romanzo è come sfumato nel nostro ricordo di lettura d’anni addietro: vivida è però l’impressione di dolce capolavoro, omaggio di fino all’arte del racconto (direttrice costante pure del Calvino successivo), con quel finale in cui si scopre la narratrice suor Teodora altro non essere che la bella Bradamante protagonista (non unica) della fabula; cortocircuito d’inusitata efficacia per una storia a tratti picaresca, altamente simbolica, abitata da un eroe privo di sostanza materica e tutto animato d’ansiosa volontà, di compiutezza morale, sino al momento di darsi la morte. Trascurando la sfocatura d’una trama composita e divertita, è proprio lì, in quel punto di fusione, che “aspettiamo” Certini, nella partecipe curiosità per un espediente che traduca la trovata letteraria in paragonabile atto scenico.
Il palco è un antro scuro: due schermi, sospesi a mezz’aria, delimitano lo spazio come fosse tripartito. Un piano sonoro di tonalità altrettanto cupe accoglie la tricotica apparizione d’un peloso personaggio arancione: è Gurdulù, contadino di tratto animalesco che Carlo Magno assegnerà ad Agilulfo (il cavaliere protagonista) quale scudiero. Il dettato scenico, non a torto, deroga dal pedissequo campionamento della storia, puntando, invece, sulla potenza di immagini e gesti. A terra, la corazza metallica non attende che d’entrar in funzione e il dubbio è solo se e come Certini la animerà. Dagli schermi laterali, compare, invece, la sororale narratrice (lo stesso danzatore, velo e improbabilissimi occhiali in bachelite), ad offrir una linea narrativa che il pubblico (per l’occasione formato da svariati bambini in età pre-letteraria) sembra giustamente bramare.
S’innesca un raffinato dialogo tra immagini in video e danza in scena: Certini si libera della parrucca per indossar l’armatura, gravosa e sferragliante veste pure sonora. Gioca sul gesto, simula battaglie, tenendo dietro a un racconto che, inevitabilmente, si fa sin troppo articolato. Volto e voce nuda sono impiegati per declinar al comico alcune sequenze, inserendosi in un costrutto polifonico: il disegno luci sostiene il discorso spettacolare, allo stesso modo della partitura fisica, ora astratta ora marcatamente ridicolosa ora, addirittura, dotata d’una sua impalpabile poesia, nonostante l’incaglio d’una parte centrale in cui la dinamica parrebbe difettare un poco.
La quadratura del cerchio, ancorché da meglio forgiare, sul finale: quando il danzatore, al termine dell’ennessima sequenza coreutica, cambia d’abito a vista per indossare velo, tonaca e occhiali, portando in scena la suora sin lì comparsa a schermo, scioglimento che, ripensandoci, avremmo pure potuto immaginare, ma che rappresenta un azimut d’innegabile efficacia. E solo un’ulteriore inserzione testuale (originale) separa l’artista dai meritati applausi per uno spettacolo non facile né banale, la cui destinazione per ragazzi trova, forse, la migliore declinazione nell’ambito degli studenti medi superiori. Sperando che Calvino sia per loro autore esistente.