Uno spazio ampio, in apparenza disordinato: è l’impressione quando lo sguardo abbraccia il palcoscenico del Giglio. «C’è del metodo», chiosa facile: intanto, per la presenza di due danzatori (Deniz Azhar Azari e Andrea Coppone) che già s’inseguono, s’acciuffano, si mollano, in una divertente partitura corporea; in seconda istanza, perché stiamo per assistere a un allestimento di Teatro Gioco Vita, sigla storica del teatro ragazzi, ma non solo, in Italia.
Il cielo degli orsi è titolo peculiare: incuriosisce, infatti, l’abbinamento tra due realtà solitamente distinte, quasi opposte. Da un lato, la materia celeste, che l’uomo riserva a sé e alla propria parte volatile, dall’altro il mondo animale, ferino, declinato in una figura tra le più pesanti e terrene, quei villosi plantigradi che l’immaginario collettivo vorrebbe ora fameliche fiere minacciose, ora bonaccioni e inoffensivi compagni ghiotti di miele.
A pubblico accomodato, si dà inizio all’azione che vede i due performer alle prese con proiettori di luce e sagomature da indossare o azionare. Il fondale, al cui centro campeggia una parete chiara (in seguito scomponibile), diventa schermo per proiezioni articolate: la luce nitida d’un paesaggio aurorale, dominato da tenui tonalità di giallo e rosa, e le ombre ricavate dalle manipolazioni (di corpi od oggetti) in scena. L’attenzione dei bambini s’aggancia subito al gioco d’ombre, ennesima dimostrazione di come qualsiasi teatro consiste in una più o meno sciente adesione ludica. Il nostro occhio s’aguzza ammirato sullo sdoppiamento di piani, tra proiezione semi-illusionistica e realtà fattiva che la produce. L’effetto è ancor più forte quando, nella seconda parte, lo schermo viene smontato, rimodulato, nell’esibita ostentazione del trucco. Spettacolo ombrechtiano verrebbe da dire, saldando le due componenti che ci paiono essenziali: le ombre cinesi (libere, però, da istanze illusionistiche) e l’esigenza di mostrare la macchineria illusiva: manustuprazioni mentali da adulti, lo ammettiamo, senza dubbio trascurabili per i bimbi. Che, infatti, prediligono l’animazione di grande minuzia, le figure che si susseguono sempre varie e sorprendenti, il tono morbido, ma (come vedremo) non dolciastro o consolatorio delle storie.
Alla partitura visiva s’associa quella verbale: le voci ampificate dei performer rendono un universo animale di grande coralità per due piccoli coraggiosi apologhi con tema la riproduzione e la morte. Nel primo, è protagonista un orso con desiderio di paternità ma scarsa cognizione fisiologica; nel secondo, sarà il figlio orsetto che, inconsolabile per il dolore della perdita del nonno, s’aggirerà nel mondo cercando chi lo possa aiutare a morire e raggiungere l’amato avo, approdando poi al ben più raccomandabile e rassicurante abbraccio di mamma e papà. Ovvio che il pubblico infantile rumoreggi un poco nei sintagmi tristi: la decadenza in cui viviamo, quella del tutto intorno a te, aborrisce l’idea della morte, concetto rimosso (ne scriveva il professor Heidegger, ma i bambini, giustamente, non lo leggono) anche da genitori e adulti in genere. E proprio per questo ci pare meritevolissima l’idea d’una fiaba che, non rinunciando alla magia della meraviglia, instilla nelle menti e nei cuori dei cuccioli d’uomo l’idea che la morte esiste, fa parte della vita, ne costituisce l’irrinunciabile alterità dialettica.
Gli applausi convinti uniscono sia gli intellettual(oid)i sia i bambini, che di teorie non abbisognano.