«Unsatisfactory». Questo il commento della ragazza (straniera) in compagnia della quale ho avuto la fortuna di assistere a Zero, spettacolo prodotto in occasione del centenario dalla nascita di Tadeusz Kantor, coreografia e testi di Paola Bianchi, danzatrice in scena con Giuseppe Tordi. Prima di quell’unica parola, tra noi due un silenzio, un sospiro e, infine, un lungo sguardo.
Per l’occasione lo spazio del Florida incarna quella stanza reale di cui parlava il regista e scultore polacco: ambiente nudo, pareti scoperte, che lui vedeva come parte di un’opera plastica. Qui i mattoni a vista sostituiscono il bianco e forniscono alla scena una vaga connotazione carnale che ai corpi manca. Forse, per la suggestione provocata dalle installazioni – visibili nell’atrio del teatro prima e dopo lo spettacolo – a mostrare immagini di corpi definiti da linee nere trascinate sul bianco accecante di uno sfondo luminoso, pure in scena sembra di vedere altrettanto chiaramente il corpo solido e fragile della danzatrice muoversi come per geroglifici: segni dei quali la maggior parte di noi subisce solo il fascino di relitto. Altri, invece, vi scorgono una storia.
Sul fondo, un uomo claudicante, bastone in mano, va e viene lungo una linea immaginaria: ricorda il rigo scritto su un foglio, l’anda e rianda del rullo di una macchina da scrivere sul proprio carrello. L’uomo è in qualche modo “fuori” dallo spettacolo: solo, dialoga a gesti e movimenti con qualcosa che noi non percepiamo. La partitura rumoristica su cui agisce la danzatrice è estrapolata dalle registrazioni con cui Kantor fissava in voce i propri scritti; ma i suoni, di quegli scritti, sono solo le “ossa”: passaggi, inciampi, sospiri, piccoli tentativi di dire l’indicibile contenuto nella riflessione solitaria dell’artista.
Il libretto di scena – un grande foglio piegato da aprire come un origami [lo riportiamo a lato]– nasconde al suo interno non la partitura visiva dello spettacolo, ma una mappa che evidenzia lo strano rispecchiamento tra quello che manca e lo zero presente sul palco. Tutti i corpi incarnati dalla danzatrice sono (come dice lei stessa) ritagliati dai grandi bassorilievi degli spettacoli kantoriani, estrapolati da quegli ermetici concerti visivi e sovrapposti ai momenti sonori di riflessione che li hanno generati: un perfetto e concettualmente lacerante esercizio teatrale per tradurre in scena uno di quei discorsi “impossibili” che animano spesso le visioni d’artista, frutto di un dialogo muto tra mente creatrice e corpo che nasce per, inevitabilmente, distaccarsi.
Chi non abbia conoscenza dei quadri dei pittori romantici polacchi dai quali Kantor traeva ispirazione, “derubandoli” di certe atmosfere di morte vivacissima, forse coglie con più difficoltà la poesia di un corpo a riposo sul proscenio che sembra far eco a certi abiti di donna scomposti come se dentro non vi fosse niente, mentre sono indossati dalla morte stessa. La danzatrice entra ed esce dagli stati stigmatizzanti i corpi, del tutto presa dai passaggi tra una trasmutazione e l’altra, lasciandoci come da parte. Tra uomo e donna in scena vibra una sottilissima tensione, dalla quale ci sentiamo esclusi. L’unica immagine evocata da una voce off che descrive abiti e vecchi oggetti come fossero personaggi è resa visibile in scena dall’azione della danzatrice che a margine, come dietro una quinta invisibile, indossa proprio gli abiti e gli accessori descritti.
Scrive Paola Bianchi che quei corpi zittiti dalla morte di Kantor sono ora vivi nella sua memoria: «E tanto basta». Alla platea, però, resta un senso lieve di invidia per non aver potuto abitare fino in fondo, anche solo per un istante autentico, insieme a quel suo sguardo che guarda.