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Effetto deja-vu: per oltre vent’anni, Copenhagen, solido dramma di Michael Frayn per la regia di Mauro Avogadro, ha imperversato sulle nostre scene, forte d’un terzetto rodatissimo (Umberto Orsini, Giuliana Lojodice e Massimo Popolizio), un allestimento strutturato, un tema (la scienza che si fa braccio alla guerra) spinosissimo.
L’impressione è che, al mutar dei nomi mantenendo il regista, con questo Eichmann si sia voluto ritentare l’operazione. Gli ingredienti ci sarebbero: ottime firme autorali; statura degli interpreti; linguaggio coerente e in continuità tra i due lavori, entrambi d’ambientazioni scure, secche geometrie tra personaggi, per un teatro aggrumato sulle parole dei caratteri; infine, una tematica, il nazismo e l’origine del male, che vale senz’altro la pena di affrontare.
Nondimeno, gli ingredienti non bastano mai da soli: in teatro come in cucina, s’ha bisogno di mano all’impasto, cura sapiente, riposo, nell’ineffabile dinamica che permetta a ogni elemento di sprigionare la propria efficacia. Mai l’enunciato è in sé bastante a dire qualcosa, ed è questa sensazione, nel lesto rialzarci dalla poltrona, che ci accompagna al freddo serotino d’una Padova deserta, massacrata da due anni di pandemia.
Hannah Arendt/Ottavia Piccolo, da un lato, Adolf Eichmann/Paolo Pierobon, dall’altro: la scrittrice-filosofa, allieva di Martin Heidegger, acuta indagatrice della mediocre ordinarietà da cui origina il male, faccia a faccia con l’enigmatico esecutore della Endlösung der Judenfrage, nell’ambiziosissimo dialogo ordito da Stefano Massini.
Se in Copenhagen, Frayn dava forma a un incontro effettivamente accaduto nel 1941, qui il drammaturgo fiorentino appronta una ricucitura testuale, intrecciando i verbali del processo israeliano ai danni del tedesco e il commento “in diretta” offerto dalla scrittrice d’adozione statunitense: correva l’anno 1962. Ne trae una drammaturgia serrata, ove le parole s’alternano ai piani d’emissione vocale (che bellezza, due attori di razza senza microfoni, pur in uno spazio ampio), riprodotti da una scenografia di praticabili ad altezze scostate, sedie poggiate su livelli diversi, in un chirugico disegno dei movimenti.
Parole pesanti, da un lato, quasi leggere, dall’altro: è forse un peccato che il tratto più felice sia quello a rendere l’altro Adolf, complice un’interpretazione magistrale, quadratissima di Pierobon; il suo Eichmann è copioso di sfumature, sulfureo, razionalistico, ben più profondo della filosofa incarnata da Piccolo, a tratti monocorde quanto a recitazione, forse per un dettato di retorico umanismo che tradisce, in parte, la complessità del suo pensiero.
Il problema è che per trattare efficacemente del male, lo si deve amare, penetrare, cogliendone il perverso fascino intrinseco: questo riesce pure, quando a parlare è Eichmann, ma la mancanza di forza nella controparte scenica finisce col nuocere al costrutto complessivo. Volgendo lo sguardo al nazismo, al paradosso di questa non ideologia (rimandiamo a Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno) che, obliterando la figura dell’altrui soggettività, si vota alla paranoia patologica, è impossibile non pensare a quel capolavoro di complessità che è Salò, o le 120 giornate di Sodoma, pellicola quintessenziale, impreziosita dalla inaccettabile solidarietà tra il suo autore, Pier Paolo Pasolini, e i mediocrissimi, larvali, tirannici seviziatori del suo racconto. Un dramma a due con Arendt e Eichmann protagonisti dovrebbe avere il coraggio di puntare a quel livello d’indagine, e niente di meno. A questo lavoro d’impianto televisivo persino nelle musiche, manca invece l’affaccio sull’abisso che un cimento del genere non solo pretenderebbe, ma impone.
Uno spettacolo dimidiato, nonostante le dichiarate intenzioni: un’occasione perduta.