Sguardazzo/recensione sullo spettacolo “Elvira”, di Brigitte Jaques, regia di Toni Servillo, visto a Firenze, Teatro Niccolini.
Anni fa, quando nei teatri si poteva ancora assistere alle prove aperte di registi di grande fama, mi capitò l’occasione di vedere all’opera Gabriele Lavia con le “mani in pasta” su un Pirandello. Con fare da illustre maestro dirigeva i propri attori, dando consigli su come interpretare un certo personaggio anziché un altro.
Tale ricordo mi è sopraggiunto durante la visione di Elvira, testo drammaturgico di Brigitte Jaques, al Niccolini di Firenze. Al posto di Lavia, abbiamo qui il personaggio di Louis Jouvet, interpretato dal pluripremiato Toni Servillo che, salendo e scendendo dal palco, dirige la propria giovane attrice (una bravissima Petra Valentini) in uno dei ruoli più complessi della drammaturgia molieriana. Jaques ripercorre all’interno del suo lavoro sette lezioni che Jouvet tenne al Conservatoire National d’Art Dramatique di Parigi nel 1940 sul personaggio di Elvira, sui suoi due ingressi in scena – ricchi di turbamento – davanti all’amato Don Giovanni. Elvira è interpretata da Claudia, giovane allieva d’arte drammatica intenta a preparare il proprio ultimo esame secondo i dettami del maestro Jouvet.
Sette sedute di prova, in cui si snoda l’azione, si eseguono sempre i soliti “passi”, che se non fosse per una traduzione-descrizione da parte del coprotagonista di quei “tumulti interiori” dei personaggi – celati apparentemente all’occhio dello spettatore – potrebbe risultare alquanto noiosa per i profani del teatro. Non è così perché la maggior parte degli astanti è lì per una sola cosa: vedere Toni Servillo.
È invero impeccabile la recitazione dell’attore napoletano, il quale connota e colora le caratteristiche del proprio personaggio, lo caratterizza in ogni suo gesto o movimento. Chi è avvezzo alla recitazione dell’artista (non solo quella cinematografica, nota ai più) può aver avuto cedimenti nel comprendere la scissione dei ruoli: a tratti sembra che l’attore campano interpreti un maestro, che a sua volta “fa” Jouvet e che, tornando al principio (come alla fiera dell’Est), risulta Servillo. Jouvet invita Claudia a sforzarsi affinché il testo passi, affinché smuova la propria sensibilità per comprendere e trasmettere le fattezze e le emozioni di un così complesso personaggio che è Molière, ma è anche Racine e Shakespeare.
Si comprende, ma non ci aggrada, la scelta scenica di inserire sopra al palco una piattaforma nera sopra cui gli attori agiscono ulteriormente, come a rimarcare l’effetto metateatrale che ivi si crea. Si ha quindi: un primo livello che è il Teatro Niccolini (sia la platea, sia le prime file, divise dalle restanti da un drappo bianco), dove gli attori Jouvet, Claudia e altri due allievi agiscono; poi, nel secondo livello, la piattaforma adagiata sul palco, dove prendono vita i personaggi di Elvira e Don Giovanni.
Indubbiamente lo spettacolo stimola riflessioni sull’attuale situazione teatrale italiana, su quanti registi continuino a lavorare tramite approfondite analisi del testo, quanti per i quali la drammaturgia diviene mero pretesto e altri per cui si lavora “a braccio”, per sensazioni last minute. E quante persone si sarebbero soffermate a vedere un Elvira senza Toni Servillo? Quanti avrebbero assistito a una “prova”, ripetuta per 75 (settantacinque) minuti – fruibilissimi, beninteso – con un altro attore?
La risposta è: (solo) i teatranti. Coloro che vivono quotidianamente di prove, su quelle assi di legno, e che, per la maggior parte, contribuiscono alla salute dei botteghini italiani.