Storie di vita, si dice così. Coppie sfibrate nello stillicidio delle aspettative: un tempo, era il ménage sin troppo quieto a indurre turbolenti scossoni alla placida stabilità coniugale; adesso che quest’ultima è divenuta un miraggio favolistico, la si agogna, traguardo esistenziale per cui val la pena protestare, indignarsi, elevando il domestico focolare ad approdo risolutivo.
Parla in prima istanza a noi o, meglio, al nostro oggi, la pièce d’esordio di Gherardo Vitali Rosati, critico che scavalca la staccionata per cimentarsi in prima persona nella scrittura scenica: caso non inedito, ma sempre peculiare e interessante, da maneggiar con cura. Fumo blu è, peraltro, il risultato d’un lungo lavoro di letture (e scritture) effettuate tra Firenze, l’Umbria e New York, tra Metastasio e LaMama Theatre, nonché di prossimo approdo nel prestigioso Festival dei Due Mondi di Spoleto, il che acuisce non poco una già comprensibile curiosità preventiva.
Pacchi, pacchi di giornali: sottratti al macero, impilati, distribuiti con geometrico rigore lungo il perimetro e al centro di quell’ampia scena che è la sala del Teatro Magnolfi Nuovo. Pochi elementi corredano l’invadente trionfo cartaceo: una sedia, un computer portatile, a destra, un paravento sull’altro lato. L’imponente vetrata, autentica, domina la parete di fondo e conferisce un che di site specific alla scenografia, diventando il terminale per una serie di proiezioni video abbinate agli interventi sonori del violoncello di Lisa Yihwan Lim.
Paolo e Claudia: intraprendente cronista d’incerta carriera l’uno, danzatrice in disarmo l’altra, dopo aver abdicato ai sogni di gloria e ripiegato sulla più solida ma frustrante prospettiva dell’insegnamento coreutico. Traiettorie opposte, intersecate nell’iconico interno d’un amore ormai quotidiano, assuefatto ad alibi e ragioni, velleità e aspirazioni: lei (una convincente Silvia Frasson) vorrebbe di più, a risarcimento per le scelte progettuali che da sempre caratterizzano la dimensione muliebre. Vana speranza, banalmente infranta sulla svagatezza del ben più ordinario compagno (Daniele Bonaiuti), a tratti sciocco, schiacciato dal peso di un’eredità cui non può sottrarsi. Leggendaria giornalista autrice d’uno scoop ai tempi del caso Moro, la di lui madre è spettro addirittura fallaciano, presenza/assenza ossessiva: grava sul figlio deciso, tratto non mediocre, a rifuggir l’umiliante scorciatoia di un’italicissima raccomandazione.
Roba “nostra”, insomma, che Vitali Rosati tratta con efficace leggerezza: dialoghi rapidi, comicamente fiorettistici, punteggiati da frequenti a parte, fenditure antinaturalistiche (sottolineate dai rapidi cambi d’illuminazione e dal puntuale commento strumentistico) in grado di conferire ritmo e variazione al dettato. Si percepisce una scrittura assai avvertita, cosciente dei meccanismi drammaturgici, sin nella risoluzione del tutto, dagli echi cronistici che evitiamo di rivelare. Potrebbe giovare, probabilmente, un maggior coraggio nel taglio tragico/onirico che sembra accennarsi poco prima del finale, con l’incidente d’auto che coinvolge il ragazzo e che ci pare offrire una preziosa possibilità di sviluppo. Sarebbe il passaggio da un esercizio ben eseguito (per scrittura, regia, recitazione e inserti), ma sin troppo pettinato, all’emersione di qualcosa di assai più denso, fuori controllo, forse persino estraneo alle intenzioni dell’autore (non offriamo certezze al proposito), ma che potrebbe conferire una forza inusitata e imprevista al fumo blu che avvolge le esistenze di Paolo, Claudia e, di rimando, pure la nostra.
* Considerazione arlecchina:
per gran parte dello spettacolo ci siamo chiesti se i pacchi di carta di giornale fossero costituiti TUTTI da articoli di un qualche collega, convergendo, alla fine, su Gianfranco Capitta.