La sala affollata e vociante è appena illuminata quando gli ultimi oggetti di scena vengono posizionati a sipario aperto: sembra che il pubblico stesso sia complice di questa costruzione di realtà finzionale che tra poco porterà a viaggiare nel tempo con The Pride di Alexi Kaye Campbell.
Londra 1958, una casa, libreria sul fondo accanto alla finestra, tavolo e sedie, divano e poltrona; e la porta, quella da cui i personaggi entrano o escono quando serve. Sono in tre, Philip (Luca Zingaretti) e sua moglie Sylvia (Valeria Milillo) incontrano Oliver (Maurizio Lombardi), uno scrittore, ed è subito chiaro che tra i due uomini c’è un attrito o, meglio, qualcosa che poi si scoprirà essere un’attrazione. Discutono delle illustrazioni che la donna sta preparando per il libro di prossima pubblicazione, poi si apprestano a uscire per cena. Una presenza ambigua, un uomo in uniforme tedesca, entra nello spazio visivo prima che i tre si congedino. Chi è? È solo un espediente per anticipare un cambio di storia, uno dei tanti indizi che lo spettatore potrà seguire nel succedersi dei fatti.
Usciti i tre, la scena si trasforma: cala un pannello a chiudere la vista su una parte della camera e una violenta luce viola colpisce gli occhi, senza spiegare dove o come la narrazione stia proseguendo. Un sogno? Fantasmi?
Londra 2016, uno spinto gioco erotico tra uomini en travesti termina in una bevuta sciogliendo la tensione accumulatasi. Questa volta, i rapporti sono palesi: Oliver è stato lasciato dal suo compagno, Philip, soffre e cerca di consolarsi pagando qualcuno per strani giochetti. Due epoche distanti, due dinamiche psicologiche differenti, tutto senza affettazione né banalità o senso di ipocrita solidarietà: vediamo solo e soltanto i fatti, da cui ognuno può trarre le proprie conclusioni. Due uomini che s’attraggono, ieri come oggi, senza una ragione recondita che spieghi tale inclinazione, sevizie infantili o traumi o altri motivi che giustifichino agli occhi della società una consimile “malattia”.
Trova posto perfino uno pseudo processo medico (il dottore è Alex Cedron) in cui il Philip della prima storia chiede aiuto alla scienza per “liberarsi” della sua stessa natura. Un vero e proprio rapporto fotografico dei valori sociali che inquadrano la dimensione dell’omosessualità resa dalla forza dei personaggi/attori e dalla loro natura. La figura di Luca Zingaretti e la sua mimica, quasi rude e concreta da uomo d’affari, ben rendono il paradosso delle emozioni celate a tutti i costi; oppure la decisione del fotografo reporter che sa il fatto suo e non accetta le infedeltà del suo uomo. La moglie fragile e frustrata (la voce di Milillo, piuttosto flebile, fatica non poco a raggiungere la stessa platea) diventa, in tempi odierni, la madre frenetica e finalmente padrona della propria vita.
È il dramma dell’identità che tutti dobbiamo imparare a cercare e ad accettare in una dimensione che oggi fagocita ogni cosa nel grande mercato dell’immagine. Un teatro di riflessione su un tema scottante per la cultura dell’apparenza di genere, con le voci timbricamente e ritmicamente scandite di attori noti per la felicità di un pubblico, per una volta, giustamente esultante.