C’è un pubblico strano al Teatro Francesco di Bartolo per il debutto di L’inferno dentro: eleganti signore fresche di messa in piega e teenagers che immortalano con un selfie la loro presenza in un posto tanto inusuale. Una fauna che si incontra in spazi più tradizionali, ma insolita per il piccolo teatrino butese, frequentato da habitué, con una concezione più disinvolta di una serata a teatro. Accoglie il pubblico, nella sala immersa in un fumo bluastro, la scenografia già a vista, formata da pochi oggetti ben disposti sul palcoscenico, per l’occasione spogliato di quinte e fondale (soluzione un po’ ruffiana, ma che fa sempre il suo effetto).
Lo spettacolo inizia con il Dr. Reynolds (Tazio Torrini) che si rivolge a una platea di colleghi psichiatri, mostrando agile sicurezza nel definire il discrimine tra pazzia e normalità, finché una giornalista (Giovanna Daddi) si alza dalla prima fila per lanciare accuse che turbano l’equilibrio dell’autoindulgente conciliabolo di medici. Sei pazienti si succedono – un po’ meccanicamente – in altrettanti monologhi: una alla volta si staccano dal gruppo, per raccontare le vicende che l’hanno condotte alla pazzia. Non staremo qui ad alzare palette con un voto per ciascuna attrice: contrariamente a quanto si possa credere, c’è della differenza tra la critica teatrale e un concorso per barboncini. Basterà dire che ognuna offre una diversa interpretazione della follia, tratteggiando una multiforme galleria di caratteri.
Testo e regia sono firmati da Gabriele Paoli, giovane pisano, londinese di adozione: dopo la tournée in Inghilterra, traduce il testo in italiano per riproporlo a Buti. Nel farlo, la compagnia ha sperimentato un modo nuovo di fare teatro: con il regista a 1200 km dagli attori, gran parte del lavoro si è svolta via social network. In scena si avverte la frammentazione che deriva da questo sistema di allestimento: ognuna porta il suo contributo, ma difficilmente si crea un prodotto unico e fluido. Non a caso, i momenti più riusciti dello spettacolo sono quelli in cui le sei attrici riescono a lavorare insieme per costruire delle visioni suggestive: lo dimostra l’immagine finale, molto iconica, in cui, rabbiose, accerchiano il medico con le loro sedie.
Ci rimane il dubbio: il testo vuole parlare della pazzia o del femminile? Sono due temi enormi, che spesso, in questo lavoro, sembrano risolversi nell’equazione che rappresenta le donne e i folli inchiodati all’immagine di vittime. Il sospetto è che tali argomenti siano poco più di un pretesto per una serie di prove attoriali più o meno riuscite. Si è presentato L’inferno dentro come «lo spettacolo che fa discutere gli addetti ai lavori», ma non si trova, in realtà, lo spazio per una qualsivoglia divisione: lo spettacolo è ben confezionato, ma vacuo. La cosa veramente interessante di questa produzione, più che l’aspetto moderno del lavorare sui social, è la campagna di comunicazione che riesce a richiamarsi un pubblico strano (vedi sopra), che probabilmente non ha gli strumenti giusti per leggere la banalità di fondo di questa operazione.
Non possiamo tacere, in chiusura, un aspetto: chi scrive frequenta le sale teatrali da qualche anno e può assicurarvi di non aver mai messo le mani su dei pieghevoli più lisci e più patinati di quelli di ieri sera.