Chissà cosa afferra, il pubblico di Alessandro Bergonzoni. Le parole si piegano, declinano, accavallate in detti e contraddetti, continui slittamenti di senso, tra arguzia, gioco e rivelazione. Meccanismo noto: non è certo all’artista bolognese che si possa attribuir primati in tal senso, se non riconoscergli un indiscutibile valore nell’ambito della sua specifica disciplina. Perché, sia chiaro, si tratta davvero d’un gran bell’attore, pure cresciuto negli ultimi anni: in potenza, polifonia, versatilità, più di quanto l’idea (astratta) della sua opera conceda immaginare. E il pubblico, che lo (ri)conosce e apprezza per le ardite doti affabulatorie, lo segue (ci prova), sottolineando i passaggi più comici, ergo comprensibili, con risate e applausi.
Torna in scena dopo tre anni: linea non dissimile da Urge (2010), ove l’esondazione verbale dilagava nei campi della necessità, della presa di coscienza, della chiamata all’armi d’un impegno che non fosse attualistico, banalizzato, promozionale. Ecco la ragione della cattività scenica o, meglio, della distanza dal piccolo schermo: il teatro di Bergonzoni mai potrebbe attagliarsi sua sponte alla carneficina dei tempi tv, la loro brutalità violenta, la loro intima volgarità. Servono corpo, voce, presenza, serve esserci. Il discorso, da solo, non basta: saremmo nel letterario e Bergonzoni, invece, è attore, attautore, interprete che si fa carico d’un discorso, artista che lavora su e con il senso. Persino, se possibile, oltre la forma, in qualche modo sedimentata, d’una pratica scenica cui ormai non difetta il collaudo.
Parte dal buio. Nel buio. La voce off dialoga sul filo del paradosso a proposito d’un quadro elettrico da attivare. Preludio alla luce. Lo spazio ingombro di fumo accoglie e fascia un Bergonzoni più magro, macilento di come lo ricordavamo. Mani infilate all’interno del vetro di un’incubatrice; altre due macchine analoghe ai lati. Performance non solo verbale: lui si muove, avanza e arretra sul palco, spinge e trascina le attrezzature alla stregua di carrelli; talvolta, estrae le mani dalle feritoie, ondeggia gli arti nell’aria, tracciando lo spazio. L’incubatrice è icona di nascita, tema portante del lavoro, polo attrattivo d’una poetica che indaga la profonda ed estrema dimensione della vita come legame, relazione, ineluttabile inseparabilità. Nesso, appunto.
Non c’è distanza, alterità: tutto è tutto, assunto che è il contrario della banalizzazione fricchettona in cui tutto vale tutto. È, bensì, approdo panteistico, sofferto e gioìto, atomica fusione di dolore e giubilo, pianto e riso, morte e vita. Ed è questo il dubbio che coglie alle prese d’un attore che è artista, ma pure sacerdote (del resto, in Urge, professava voto di vastità), predicatore d’un umanesimo impossibile e abbacinante: quanto il pubblico, il suo pubblico, afferra di tutto ciò? Troppo facile restare avviluppati nella rete sapiente di tanto virtuosismo, verbale e declamatorio. Guardare il dito e trascurar la luna.
L’applauso è scrosciante, convinto premio ai vari bis concessi, dosando umorismo, stralci di repertorio e il testo Le vite in fasce, quadratura di questo Nessi, ambizioso quanto sottile, adamantino, mercuriale. Chissà cosa afferra il pubblico, cosa capiamo noi, di tutto questo. E quanti siano disposti, davvero, a farsi cambiare da uno spettacolo. Dal canto suo, Alessandro Bergonzoni non può far altro che quello che fa. Non è poco.