Quando un uomo perde la memoria, perde l’anima. Così diceva Umberto Eco e a lui dedico questa serata, in particolare L’ultimo nastro di Krapp, che sulla memoria fonda la sua poetica.
Una dichiarazione di intenti, quella di Giancarlo Cauteruccio, pronunciata senza troppe cerimonie nel giorno della morte dello scrittore e filosofo piemontese, ad accompagnare il suo Trittico Beckettiano. Dai comunicati stampa apprendiamo che queste repliche costituiscono il commiato del regista calabrese al Teatro Studio di Scandicci, da anni gestito con profitto. Un saluto che merita lo sguardo di chi, come noi durante il primo anno di vita della presente testata, ha avuto il piacere di assistere a eventi e produzioni firmati proprio da quel signore che, camminando a passi tentennanti, si dirige verso il nero delle quinte per prepararsi ad agire.
Si principia con Atto senza parole, celebre pièce che vede protagonisti un tecnico di teatro e un uomo-marionetta costretto a suon di fischi a eseguire gli ordini e le manovre del macchinista. Peculiare e originale la scenografia realizzata per questo allestimento, che vide la sua nascita 10 anni fa, quando la Compagnia Krypton decise di omaggiare e festeggiare il centenario della nascita di Samuel Beckett. Una struttura in legno su tre lati sovrasta la scena: nella parte superiore tiranti su pergolati permettono la discesa e la salita degli oggetti scenici. Atto senza parole, come suggerisce lo stesso titolo, è una performance totalmente visiva, in cui Massimo Bevilacqua muove i propri passi in sincrono con una traccia audio ritmica, che dà l’impressione di zoccoli di cavallo sull’asfalto). Mimica e gestica appartengono alla clownerie e l’intera performance ci appassiona e diverte come se fossimo bambini al circo.
Si passa quindi al buio scenico di Non Io: una volta che l’occhio si è abituato alla completa oscurità, ci accorgiamo di una fessura sul fondale da cui intravediamo – la luce è veramente troppo invadente – una bocca. Veniamo assorbiti, fagocitati, da una voragine di parole, immersi in un tumultuoso racconto scandito da quella bocca vermiglia. Urla, gracchia, sussurra e accarezza: la voce di Monica Benvenuti tramuta parole in immagini.
Infine, dalla visione al racconto: si giunge a L’ultimo nastro di Krapp, in cui un buffo e pingue Cauteruccio interpreta la triste storia di un vecchio scrittore ancorato alle proprie bobine, alla propria voce registrata riascoltata tramite un magnetofono. Quella bramosia della ricerca del cassetto, in cui è gelosamente custodita una banana, è così reale da farci trattenere il fiato; l’estirpazione della buccia e la vorace degustazione dà un senso di reale appagamento che suscita la voglia d’assaggiare il frutto. Quei piccoli passi incerti, costretti all’interno di enormi stivali, fan così pena da spingerci quasi ad alzarci per aiutare l’uomo, tendergli una mano.
Non è facile dipingere la tela beckettiana, così meticolosa e puntigliosa: in troppi lo hanno fatto e proprio tale moltitudine ha tergiversato su molte opere dell’irlandese. La fedeltà unica e certosina del regista calabrese in questo allestimento, il rispetto per la didascalia, rende il suo trittico una vera chicca che lascia piacevolmente colpiti e appagati. Con Cauteruccio da qualche anno è possibile parlare di archeologia teatrale, vista la massiccia ripresa dei propri cavalli di battaglia (si pensi a Eneide) variando poco e nulla dalla prima versione; in questo caso l’unico cambiamento dal 2006 è l’ingresso di Massimo Bevilacqua al posto di Fulvio Cauteruccio.
Non amiamo epitaffi e commemorazioni funebri, ma siamo concordi nell’annoverare questa performance tra le dediche veramente riuscite.