«Quel fazzoletto che amavo tanto, e che ti avevo donato, tu lo donasti a Cassio».
Nasce dal buio l’Otello di Luigi Lo Cascio, un’oscurità claustrofobica miasmatica dalla quale riesce a liberarsi, a sorgere, il niveo fazzoletto dono a Desdemona. Lontani da Venezia scivoliamo immediatamente in una Sicilia distopica, distorta, senza tempo, popolata da ombre che si allungando sui personaggi divorandone i corpi, dove l’onirico si anima traducendosi in morbo che penetra la pelle e scava nella mente. La narrazione si serve di proiezioni, create da Nicola Console e Alice Mangano, si affida al gioco metaforico lasciando che sia l’immagine a rinchiudere l’uomo.
Arriviamo alla fine della storia, in ritardo, quando ormai tutto è già stato compiuto: Otello è morto, Desdemona uccisa, l’unico che ancora vive è Iago (Luigi Lo Cascio). Sotto tortura viene costretto a confessare cosa lo ha spinto a scatenare la follia del prode guerriero. Oltre a lui, il suo aguzzino (Giovanni Calcagno), un soldato che per stima e rispetto nei confronti del generale vuole raccontarne la storia, perché non venga distorta, perché Otello sia ricordato con l’onore che gli spetta. Non spiamo quindi, protetti della penombra della platea, la storia del Moro shakespeariano, ma siamo i diretti ascoltatori.
Otello (Vincenzo Pirrotta) è furioso, incontrollabile eccessivamente mediterraneo, inserito in una dimensione che vuole lui uomo bestiale e lei, Desdemona (Valentina Cenni), ingenuo fiore delicato, vittima di un amore tanto grande da non riuscire a trovare le parole per descriverlo. L’opposizione tra i due non si serve, come nel testo originale, del colore della pelle, nero lui e candida lei: la tragedia viene filtrata, vista attraverso gli occhi di una Sicilia dove è ancora concesso il delitto d’onore. L’endecasillabo siciliano, caustico e feroce, di lui si scontra con la perfetta dizione di un’angelicata lei.
Lo Cascio taglia i personaggi, scarnifica il testo arrivando ad avere sul palco soltanto quattro attori, facendo presagire l’ombra di Cassio aggirarsi in un fuori scena non troppo distante. Amplifica la dimensione psicologica cercando di scavare più a fondo gli stadi di follia, la discesa nel gorgo della gelosia uxoricida. Otello brucia e Iago non fa che alimentare gradualmente il rogo. Ma è proprio nella resa di Iago, del suo Iago, che Lo Cascio regista approfondisce questa ricerca nell’intimo; l’Onesto si confessa rincorrendo le sue logiche in un’infanzia morsa dai rancori verso una madre adultera che non è mai stato in grado di perdonare.
La tragedia si compie, Desdemona muore tra le mani del suo amore, per le mani del suo amore. Il narratore conclude il racconto, ma la messa in scena, invece, si protrae con una sorta di finestra verso un’altra dimensione, quella dell’Orlando Furioso, verso la luna ariostesca alla ricerca del perduto fazzoletto di Orlando/Otello. Svanisce la cifra stilistica propria di quello che era stato lo spettacolo, così come la componente narrativa della luce, la sua dimensione psicologica: subentra il cielo stellato con il suo pallido e malinconico sasso. Otello vaga per il palco, vittima di una sorta di inspiegabile lobotomia che ne affoga il carattere e spegne definitivamente il rogo, si aggira romanticamente demente, dimentico di tutto quel che è stato: «L’amuri è nu cielu stellatu. Talìa che strazianti, miravigghiusa biddizza, u firmamentu».