Lo abbiamo visto e rivisto, e ogni volta è come se fosse la prima: un’emozione unica. Finale di Partita di Samuel Beckett è tra i testi più emblematici della storia del teatro, tra i più discussi e studiati, si pensi al celebre trattato di Adorno che tentava di capirlo, o ai molti allestimenti realizzati (da Carlo Cecchi a Massimo Castri, passando da Camilleri per approdare a un adattamento in calabrese di Giancarlo Cauteruccio). È quindi con piacere che assistiamo alla messinscena di Andrea Baracco, che vede Glauco Mauri e Roberto Sturno nei panni dei due reietti Hamm e Clov, costretti all’interno di un bunker molto ampio, che rende i protagonisti ancora più piccoli nella loro infelice quotidianità.
Rimaniamo colpiti da un inizio particolare e non affine al testo dell’irlandese: il sipario della Pergola, infatti, è chiuso, permettendo a Clov/Sturno di uscire in proscenio con una sveglia che scandisce il tempo, senza definirlo, in un loop infinito che cadenza la routine dei due. Uno l’opposto dell’altro, Hamm e Clov: il primo, infermo e obbligato su una sedia a rotelle, il secondo, capace di muoversi, ma legato da un rapporto indissolubile con l’altro e, nonostante la voglia di andarsene, l’impossibilità di tradurre in pratica tale proposito. Costretti all’interno di un bunker post-atomico dalle tonalità verdi e marroni, la coppia conduce una vita che è sempre la stessa, con le solite mosse: l’unico rapporto con l’esterno è dato da due finestre poste ai lati, dalle quali non si vede nessuna presenza umana (se non al termine dell’opera).
Mauri e Sturno non sono alla loro prima messinscena beckettiana, da anni s’adoprano a proporre i testi del Nobel irlandese: a tal proposito, ricordiamo il percorso multimediale (ideato con la collaborazione di Baracco) integralmente dedicato all’autore, dal non casuale titolo En attendant Beckett, presentato, sempre alla Pergola, il 5 gennaio appena trascorso. Un legame poetico, quindi, di lunga data fa da sfondo a questo Finale di Partita, presupposto ottimale per inscenare il tran-tran paradossale e asfittico della vita della coppia tratteggiata nel testo. Una recitazione naturalistica quella proposta da Baracco, ben diversa dallo stile Buster Keaton/Charlie Chaplin ideato nella mente del drammaturgo durante la stesura del testo. Le battute si susseguono senza grandi balzi comici, il riso nello spettatore si ha solo per le espressioni legate alla ripetizione già insite nel copione di partenza.
Adeguata controparte sono Nell e Nagg, i genitori che durante un incidente hanno perduto le gambe: il drammaturgo li pone all’interno di altrettanti bidoni della spazzatura, qui diventati autentiche “gabbie” per l’immondizia, estratte dalla scenografia come fossero cassetti. La peculiarità dei due interpreti, Elisa di Eusanio e Mauro Mandolini, è di essere totalmente nudi, particolare che interpretiamo come segno della loro identità di progenitori all’interno della piéce, sorta di Adamo ed Eva beckettiani.
Al di là di questi due accorgimenti, la regia di Baracco è piuttosto aderente alla drammaturgia di partenza: nessun rischio nell’introduzione di elementi moderni, come fece Giancarlo Cauteruccio con il DDT per l’insetticida, o Carlo Cecchi con l’Oro Saiwa per il biscotto classico. Ci verrebbe da chiederci se questa scelta sia veramente voluta o se sia una sorta di soggezione, legittima, nei confronti della voce autoriale, che impone tramite le fitte didascalie, poca libertà di interpretazione.
Un allestimento da manuale, ottimo per avvicinare un nuovo pubblico a un lavoro ricco di sottotesti che, nel loro essere inespressi, rivelano una incomunicabilità dell’essere umano, in questo caso, spinta al caso estremo.