Teatro e morte, elementi parentali, da sempre stretti in un rapporto intimo, indissolubile: la scena, spazio liminare ove sogni e presenze prendono forma, è non luogo che, a prescindere da qualità e intenzioni di chi lo abita, rimanda a una misteriosa dimensione altra. A teatro si parla di morte anche quando non pare, e con tali premesse ci accostiamo alla visione d’un lavoro che, invece, prende il tema di petto, affondando le mani in una vicenda realmente accaduta, quella di Desy Lumini (valida e polivalente artista , tra teatro, musica colta e folclore) e Tino Schirinzi (stimato attore di prosa), la loro morte volontaria e congiunta. Il male incurabile dell’uomo condusse entrambi, in una notte d’agosto 1993 coincidente col di lei compleanno, sulle rampe d’un viadotto in costruzione nel Mugello. Storia triste, dura; e proprio il teatro avrebbe gli strumenti per tentarne l’indagine, per far luce, con delicatezza, sull’indicibile.
Raccoglie la sfida Yannis Hott (fantomatico drammaturgo sulla cui concretezza anagrafica nutriamo dubbi), affidando una traccia testuale circa i fatti di cui sopra alle cure di Mario Mattia Giorgetti, teatrante navigato e attuale direttore della rivista “Sipario”. Sul palco, due sedie in legno, poco scostate, tra le quali giace un baule parzialmente coperto da vestiti. Una chitarra, a lato, attende: la imbraccia Siliana Fedi, entrata nella controluce bluastra riempita dalle note fuori campo di Les feuilles mortes; la passa a Gabriele Ara, abituale compagno della formazione Octava Rima, variamente attiva tra musica, teatro di palco e strada. Chiari i ruoli: lei, abito lungo, scuro, a fasciar la filiforme silhouette, è una Desy trasognata e intensa, traboccante d’amore per il compagno; lui un Tino di fisicità plebea, tratti idealisti, voce flautata. Pizzica le corde e intona canti per un allestimento costruito “a numeri”, nell’ultima notte prima del grande salto: Tino e Desy, più che mai intenzionati a celebrare il cruciale momento nella solitudine d’un teatro vuoto, ripercorrendo le rispettive carriere.
Canzoni e brevi pezzi scenici s’alternano e combinano, inframezzati dalle parole dei due a pochi istanti dall’abisso che li inghiottirà, come foglie, per un titolo che avrebbe potuto rimandare a un noto dramma di Giuseppe Giacosa (Come le foglie, gennaio 1900), di cui, però, non v’è traccia. Poco male, se non che il motivo profondo, intimo, per cui ci troviamo dinanzi queste figure, la loro scelta esiziale, l’enigma da lambire con lo strumento della forma, resta sullo sfondo, come un effetto latente, là dove sarebbe l’unico fuoco su cui concentrarsi. Hott, forse per eccessiva cautela, costruisce un best of edu(l)c(or)ato, ma inerte: non colpisce, non fa piangere, non fa male, come dovrebbe essere per un teatro che voglia occuparsi di simili casi, sfumando nel cliché di parole amorose che starebbero in bocca a qualsiasi altra coppia d’amanti. La stessa ambientazione d’una scena disabitata potrebbe risuonare con assai più efficacia: ricordiamo un bel Čechov di Silvia Pasello, L’angelo dell’inverno (a Buti, nel 2011) come ideale controesempio; l’attore a fine carriera e il teatro, la memoria e la morte, temi affrontati con ben altra profondità rispetto al presente lavoro che, al momento, ci pare assai difficile salvare.
Qualche applauso e le attenuanti concesse a una prima assoluta.