A volte in scena si portano storie e personaggi che ci hanno fatto vibrare, sognare, emozionare: li si rischiara di nuova luce, magari evidenziandone aspetti, nella migliore delle ipotesi, imprescindibili eppure trascurati a causa di letture non prive di senso, ma divenute inerti, quasi stantìe. Altre volte, si tratta di storie e personaggi condivisi col pubblico, su cui non v’è da spender fiato e tempo ché, tanto, sono noti e possono costituire (lecitamente) il trampolino di lancio per parlare non necessariamente d’altro, anzi, ma di qualcosa che abbia a che fare coi soggetti sorgenti pur da un inedito e imprevedibile punto di vista. Questa, ci pare, la strategia giocosa di Silvano Antonelli, attore, autore, clown (teatrante, in un sol lemma) per Peter Pan, figura iconica dell’eterno infante tratta dall’opera di James Matthew Barrie (sfidiamo quanti ne rammentino il nome), le cui fortune pop si devono al celebre film d’animazione marchiato Disney.
Un ampio spazio scuro; due figure, un uomo in bianco, goffo, improbabile, fuori centro dal modo incerto d’avanzare, e una fatina (Laura Righi), in nero. Si presentano, parlano all’imberbe pubblico, subito disposto al gioco e al riso. Lei potrebbe essere Campanellino, ma non ve n’è certezza: di certo, si parla di Peter Pan, o Piter come riporta non senza malizia il titolo dell’allestimento. Il celebre carattere è innesco e presenza aleggiante dello spettacolo, ma la fedeltà semi-letterale si ferma qui: tolti i drappi neri, una finestrella in mano come scorciatoia per il sogno e il volo, s’intravede l’enorme gabbia di sbarre bianche a contenere l’intera scena. Lui, spirito bambino in pingue fattezze adulte si palleggia tra l’infante dalla crescita coatta (“devi fare, devi dire, devi diventare“) all’adulto censorio e castrante, Super Io d’insoffribili toni amari: “Ma cosa fai?“, incalza sprezzante nella sadica affermazione dei principi d’ordine e puntualità. Quest’ultima è attributo del tempo, elemento concettuale via via strabordante, giacché le sbarre si caricano, grazie alla fatina, di orologi appesi, d’ogni foggia e colore, e altri oggetti, sempre all’insegna di un delirio cromatico che sembra accompagnarsi a quello dei personaggi coabitanti nel corpo del buffo attore.
Da una sin troppo dilatata e flemmatica partenza, forse per meglio “agganciare” gli spettatori più piccoli, si passa al vorticoso flusso d’oggetti colorati, di voci, di movimenti. Il bambino sempre mosso dalle migliori intenzioni di maturazione, l’adulto sempre più spietato: la matrice è una comicità surreale, contagiosa, stolta e al contempo intelligente, che ricorda (grazie anche all’accento settentrionale) certe sequenze di Jannacci, Cochi e Renato, specie nel giocare sul filo estremo della follia, del màt perennemente escluso, l’outsider che, legato alle ragioni del cuore, si trova respinto da un mondo di freddi calcoli mentali.
Antonelli è abilissimo a mescolare i registri, “portando” il pubblico bambino, e non solo quello, dove vuole lui: chissà quanto resterà, all’entusiasta platea, del succo dello spettacolo, quell’invito a non abbandonar mai l’ascolto del cuore, mai abdicare alla parte bambina di noi. Di certo, ci portiamo a casa la canzoncina eseguita con la bitarra (due strumenti accoppiati come fossero un giano bifronte a sei corde: idea e costruzione dello stesso artista) che chiude, nel migliore dei modi, il bis, con la dedica al figlio dell’attore, lontano in Australia (nessuna “disgrazia” per fortuna) a confermare che dietro ogni sorriso c’è sempre, in qualche modo, una stilla di dolore. Applausi.