Come possono arlecchini come noi, che facciamo dell’irriverenza la nostra più tagliente arma, non apprezzare l’ironia sadica e violenta di un personaggio controverso come Antonio Rezza? Amatelo oppure odiatelo, ma non potete certo rimanere pacatamente neutrali; dal canto nostro, ci impegneremo oggi a esporvi il motivo del nostro apprezzamento.
In Fotofinish (lavoro del 2003) l’ironia mordace, graffiante, intacca inizialmente la serenità delle prime file, per poi avventarsi sull’intera platea, disprezzando lo spettatore, che diviene un tipo umano ben delineabile, in balia degli assalti del performer.
Filo conduttore la fotografia, che di tanto in tanto ritorna, distorto, senza però dare una continuità forzata ad un’operazione volutamente frammentaria, basata su quadri narrativi intarsiati nella stoffa di Flavia Mastrella; quadri che certo si legano in modo più fluido di quanto non accadesse (ad esempio) in Pitecus, ma non per questo pretendono di rifarsi a una cornice razionale.
Altro tema che spesso si ripresenta, la (omo/etero)sessualità: affrontata senza alcun pudore, esasperata nelle sue varie accezioni, dallo scambio verbale (che più di uno scambio è un monologo rezziano, spesso di fronte al solo funzionale Ivan Bellavista) all’effettivo atto sessuale (signori non abbiate timore, lo si simula soltanto!).
E poi ancora, la meravigliosa maratona cristiana, con tanto di incredibili scorci fotografici, che ora si concentrano sul particolarissimo dettaglio della croce, ora permettono una visione globale della competizione, e solo assistendovi potrete comprendere l’emozione di osservare una così valente prova agonistica.
Performance vivace, (fin troppo) coinvolgente, dobbiamo tuttavia sottolinearne l’unica pecca: il sonoro. Il microfono fischia, sfrigola, si spegne, si riaccende, raschia: fastidioso per le prime file, immaginiamo insostenibile per le ultime, trovandoci d’altro canto in uno spazio ampio. Il performer dapprima ignora il disagio, poi tenta a più riprese di risolvere il problema, vedendosi infine costretto a recitare “a voce reale”, per il sollievo di buona parte della platea.
Malgrado questo disagio, lo straripante carisma dell’attore non può non colpire lo spettatore, che in certi casi ne rimane sconvolto, talvolta accogliendo positivamente la provocazione, talvolta incapace di sopportare tali affronti alla propria persona, e in questi casi ci sentiamo di dire: ma signori, il teatro non è che un gioco, ridetene e non abbiatene timore!
Certo a Fotofinish, così come ad ogni altra opera a firma Rezza/Mastrella, non è applicabile un criterio descrittivo razionale, e non si può nemmeno procedere propriamente per temi, né ricomporne tutti i quadri, e per questo forse il modo più corretto (l’unico che valga la pena di usare?) di scriverne è per scorci espressionistici, tentando insomma di suggerire l’atmosfera in cui il malcapitato spettatore si trova immerso. E allora immaginate di essere denigrati, sbeffeggiati, privati di capi di vestiario che l’artista, infuriando nella platea, lancia violentemente da un lato all’altro del teatro, e, infine, uccisi.
Uccisi su quel palcoscenico dove tutto è possibile, dove vita e morte non sono mai completamente disgiunte, e dove adesso − ma come è accaduto? − siete divenuti parte della performance: cadaveri ora integrati in un contesto narrativo squisitamente irrazionale.