|
La scena è sgombra, nuda: s’intuisce la presenza laterale di qualche arredo, un tavolo, una poltrona, più alcuni oggetti non del tutto distinguibili. Un’attrice, Gloria Giacopini, raggiunge il centro: impugna un leggio, piazzandosi in proscenio. Parla rivolta al pubblico, come quando, secondo le consuetudini di certa commedia all’improvvisa, s’usava dichiarare l’argomento della recita: siamo, non da ora, una nazione a crescita zero, situazione che alcuni demografi definiscono unicum irreversibile e, se non fosse per la parziale azione di riequilibrio garantita dai fenomeni migratori, già da tempo saremmo, come saremo senz’altro, un paese di vecchi.
Il punto, sottolinea Giacopini, è come tale prospettiva sia tutt’altro che inerte: anzi, chiamerà in causa modifiche profonde della nostra vita sociale, dai particolari più banali legati al traffico stradale sino alla conformazione delle nostre case. La sfida di Futuro Anteriore è, dunque, immaginare come possa essere un mondo popolato in prevalenza da anziani: attraverso i corpi, le voci e le azioni dei quattro performer (oltre a Giacopini, Matilde Buzzoni, Antonio De Nitto e Matilde Vigna) ecco prendere corpo una messinscena sinuosa, all’insegna della fluidità, dove sono gli attori a dettare tempi, modificare lo spazio, dar vita a quadri che slittano l’un dentro l’altro senza soluzione di continuità. Lo spettacolo di Ferrara OFF proietta lo spettatore in un dedalo di situazioni, da un lato quotidiane, tristemente usuali, dall’altro rese eclatanti dall’ostensione scenica, come se la proiezione teatrale potenziasse ulteriormente il portato emotivo dell’accadente. La cocciutaggine capricciosa dell’anziano renitente agli aiuti che va incontro all’infortunio domestico, le numerose circostanze nosocomiali, ora amarissime ora agrodolci, aprono lo squarcio su realtà ben conosciute dalla maggior parte del pubblico (avere a che fare con anziani è cosa comune), senza mai perdere una misura delicata, pur non ignara d’un qualche humour.
Si ha la sensazione che lo spettacolo punti molto, forse troppo, sul contenuto, certo interessante, ma, a nostro avviso, mai del tutto dirimente: piuttosto, in una certa coazione a ripetere si ha la sensazione d’un rischio evitabile, quello d’una sostanziale prevedibilità, quasi mancasse uno scarto, un salto di qualità sul piano dell’immaginazione. Anche perché, se proprio dovessimo discutere l’assunto da cui parte la drammaturgia di Margherita Mauro, rimarcheremmo l’assenza di una riflessione a proposito della tecnologia: limitandoci all’(ex ricco, ma comunque avanzato) occidente, ogni prospettiva d’avvenire che non tenga conto dei progressi sia nel campo dell’assistenza personale sia nel rallentamento dei processi di degenerazione fisica, rischia di suonare sin troppo parziale. Nondimeno, lo scarto di cui sopra, proprio nella scena finale, arriva eccome, ed è qualcosa che accade, in particolare, nella recitazione di Matilde Vigna: un momento di teatro, di teatro autentico, in senso morgantiano, e cioè qualcosa di piccolo, di imprevedibile, di fragilissimo, eppure prezioso, incommensurabile. Nell’ultimo slittamento, complice tutto il quartetto d’interpreti, è come se la scena subisse una scossa, un’esitazione sospesa su un abisso, immediatamente assorbita dalla conclusione, come fosse un abbraccio. Impossibile, e non per l’illusorio e insensato stigma dello spoiler, dire di più: quel che è ineffabile non vuol descrizioni.
Si resta colpiti, alfine, di come possa essere sufficiente un bagliore di teatro per schiarire un’ora intera di spettacolo, fenomeno a suo modo intimo e minuto, perfettamente in linea, dunque, con il tema dichiarato (l’intimità, appunto) della rassegna Lucca Visioni, promossa dal Teatro Del Carretto. Applausi.