Secondo giorno del festival, anche oggi il primo spettacolo si svolge nel Teatro San Girolamo: Gabbathà, dispositivo per attori-spettatori e spettatori-attori, di Giampaolo Gotti e Fabrice Hadjadj.
Una figura dall’argentea chioma ci accoglie in su la soglia, ostentando la garbatezza che abbiamo avuto modo di sperimentare in questi due giorni, sì come due anni fa (lo scorrere del tempo non sempre ingentilisce, anzi). Si preoccupa di indicarci con dovizia di dettagli i molteplici obblighi di spettatore: la formula dei quali è però efficacemente ridotta, tramite l’omissione del “si pregano i gentili spettatori di”.
Varchiamo lentamente l’entrata, per immergersi nello spettacolo: ci accolgono artisti con svolazzanti vesti candide e nasi rossi, che porgono a ogni spettatore una carta da gioco. Non ci dilunghiamo a spiegare cosa sia gabbathà, basti sapere che vuole rappresentare un anello di congiunzione tra l’aleatorietà dei giochi da tavolo e la vicenda di Gesù.
L’opera che i quattro attori-maschere propongono fa uso di diapositive (proiettate su un rosone in tela), musica, azione scenica e interazione continua con il pubblico. Pur avendo una struttura apparentemente definita, si gioca sulla casualità delle scelte della platea, in una rappresentazione fluida e dinamica, che si plasma poco alla volta. Riecheggia, in questo senso, la definizione di aleatorietà che il fisico Eppler-Meyer utilizzò per definire le composizioni di Cage: un processo è aleatorio se definito nelle sue linee generali, ma casuale nel suo svolgimento. Il gioco sta nel presentare l’intera opera come una sorta di ruota della fortuna in cui numeri e pubblico definiscano gli episodi che attori narreranno.
Ad azionare la ruota, a sostituire, forse, il dio amorevole dei Vangeli, vi è Giuda Iscariota (Giampaolo Gotti), il traditore, figura piena di fascino, perché contrapposto, eppure mai veramente antitetico, a Gesù, nonché rappresentativo di svariati temi: l’amore, il peccato, il pentimento, l’incapacità di perdonarsi, la morte auto-inflitta. L’impostazione dell’opera è, insomma, interessante: i quadri hanno un loro equilibrio interno, gli attori hanno un loro modulo espressivo, la scelta delle musiche è coerente, il filo conduttore sembra reggere. Giuda, nelle vesti di inusuale conduttore, diviene presto insistente e ripetitivo, e ovviamente, una volta abituati al gioco, il tedio fa capolino.
Grazie al coinvolgimento diretto, il pubblico è tuttavia divertito. Il tema biblico rimane superficiale, accostato a una retorica figlia di quella televisiva, che produce un goffo incrocio tra circo e villaggio vacanze. Il sacro viene recuperato solo in ultima battuta, con una frase evangelica regalata alla platea, stridendo con l’impostazione dissacrante dell’intera rappresentazione.