Sbaglia chi pensa che lo scivolamento della parola possa bastare, che un rafforzamento di gesti deittici possa essere sufficiente, il vero Toscano lo devi scovare nella tana: nelle viuzze della campagna, nei casolari e nei baretti. Sarà che, per assistere a Gobbo a mattoni, chi scrive si è infiltrato nel piccolo spazio Palco 38, a Carrara, sarà perché lo spettacolo è interamente incentrato su un circolino o sarà perché a far da padrona era quella lingua così schietta e sincera, ma mi son sentita a casa. Oggi passano sotto il marchio di Denominazione d’Origine Protetta, allestimenti come l’ultimo mainstream di Pieraccioni-Conti-Panariello, traslazione teatrale di gag e macchiette televisive che, per chi scrive, ha poco a che vedere con quei maledetti toscani (si pensi a Malaparte, ma anche al caro Carlo Monni) ai quali il rigurgito del dialetto proviene dal centro dello stomaco. Quel teatro verace, veritiero, che racconta di noi, di quello che eravamo e di quello che siamo oggi.
A farlo per noi è uno smagliante Riccardo Goretti (unico attore, se non per la comparsata finale del regista Massimo Bonecchi) intento a un solitario, seduto a un tavolo con quattro sedie attorno e niente più. Troviamo posto davanti a lui, in questo spazio “intimo”: ci racconta la storia di una casa del popolo costretta a chiudere e alla quale, nella stanza accanto, tra urla, trenini e canti, viene dato l’ultimo saluto. A lui non va di festeggiare. Lui, il Sindachino (soprannome a causa della stretta vicinanza al sindaco del paese), è triste perché con oggi si sancisce la fine di un’era inaugurata cinquant’anni fa con Tu che mi hai preso il cuor appositamente eseguita dal vivo da Gianni Morandi.
Come tutti i giorni si ritrova seduto a un tavolo, il suo, ad attendere i tre amici per giocare a briscola: Dumenuti, Krusciovve e la Madonnina. La peculiarità del gioco è che il loro mazzo, sempre quello, è monco, avendo smarrito il Jack (Gobbo, appunto) a mattoni. È consuetudine del gruppo conoscere tale defezione e, quindi, verso la fine della partita, “utilizzare” il fantomatico fante dichiarandolo semplicemente a voce. Aspettando gli amici godottiani, Goretti li descrive accomodandosi sulla sedia che erano soliti occupare, ci parla di loro e della vita vissuta in quel circolino in un percorso amarcord tra riso e riflessione. Tramite questa carrellata si ripercorre la storia intera della casa del popolo, ma, allo stesso tempo, si ricordano tutti questi centri che hanno abitato e vissuto la Toscana. Non manca una sinossi della storia della sinista: sia dal punto di vista iconico (dalla falce e martello alle varie piante e fiori) sia da quello delle abitudini che fanno da ponte tra Matteotti e Matteo Renzi.
Spettacolo verace, sincero, dove la naturalezza e la spontaneità della narrazione riconducono a una semplicità tutta toscana e che Goretti cortesemente ci offre su un piatto d’argento. Una mimica facciale accompagnata da gesti calibrati e studiati, niente è dato al caso: dall’ammicco nel gioco delle carte alla simulazione dell’apertura del finestrino a manovella.