Chi non è avvezzo alla posizione di spettatore di danza contemporanea tende a ribadirlo, al termine di uno spettacolo, dichiarandosi ignorante e mostrandosi altresì restio nel pronunciare giudizi su quanto appena visto, poiché di difficile interpretazione. Ma, si tratti di arte visiva, teatro di parola o danza, riteniamo che un’opera d’arte, pur senza scadere nella banalità o nell’eccessiva semplificazione, non debba precludersi la possibilità di parlare a tutti, habitué o meno, sfruttando le peculiarità della modalità espressiva scelta e sottoponendosi con umiltà allo sguardo di chiunque vi assista. Porre la comprensione intellettuale di uno spettacolo di danza come condizione sine qua non per una fruizione soddisfacente ci sembra una contraddizione in termini, e, quando l’unico strumento che impressiona, come la luce sulla pellicola di una vecchia macchina fotografica, è il programma di sala, l’unica affermazione sensata che possiamo fare riguarda non la nostra ignoranza: bensì, la constatazione, di ugual rispetto per spettacolo e spettatore, che quanto visto non ci ha comunicato nulla.
Pregio indubitabile dell’assolo del trentaquattrenne Manfredi Perego, già vincitore lo scorso anno del prestigioso Premio Equilibrio, è invece quello di non dare adito a frustrazioni di sorta; e, benché sia opportuno dare il giusto peso alle poche frasi origliate a fine performance, anche i commenti sembrano darne conferma: il breve brano coreografico che apre il terzo appuntamento della rassegna Pianeta Cultura. Danza Energia Vitale niente pretende di spiegare, dimostrare, ma si pone allo spettatore come qualcosa che, semplicemente, è.
Grafiche del silenzio consiste in un corpo e i segni che questo traccia nello spazio. Traendo spunto dallo shodō, l’arte giapponese della calligrafia, Perego disegna forme nell’aria come un pennello su una tela. La figura seminuda del performer appare raggomitolata in un angolo del palco, individuata da una flebile luce rossastra e, nella penombra, attraversa la scena, allungandosi e contorcendosi come una creatura embrionale che timida si affaccia sul mondo. Va poi ampliandosi, lentamente viaggia, acquista in vigore, conquista verticalità e si sposta, ora fendendo l’aria, ora insinuandovisi con morbidi arabeschi delle braccia e del busto, in un’esplorazione che sembra contemporaneamente investigazione delle umane possibilità e dura presa di coscienza dei limiti che il corpo stesso impone. Una creatura in lotta solitaria in un deserto freddo, ora tinto di blu, che debolmente tenta di emergere dall’ombra.
Il contributo musicale di Paolo Codognola conferisce ulteriore densità alla performance: una colonna sonora dai toni inizialmente tenui e intimisti dialoga con un silenzio tangibile, enfatizzato, più che negato, dalla presenza di un lieve fischio continuo, eco lontana, sul quale uno sporadico pizzicare di corde è via via sostituito da spasmi graffianti di suoni elettronici.
Una sequenza breve, meno di trenta minuti, il cui fulcro è rappresentato dalla forza suggestiva di un corpo in movimento. La danza è chiamata in causa non per raccontare, ma per creare immagini, suggerire atmosfere e dar spazio al non-finito, permettendo all’immaginazione di rigenerarsi a ogni replica. Per una volta, si dimenticano gli interrogativi sul messaggio che l’autore ha voluto trasmettere, rimanendo ammaliati da una bellezza dichiaratamente e squisitamente fine a sé stessa.