Continua la stagione di prosa del Teatro del Giglio: il quinto appuntamento vede Alessio Boni e Alessandro Haber protagonisti di Il visitatore. Il pubblico è accorso e il teatro lucchese è gremito per i due attori di grande richiamo diretti da Valerio Binasco, uno dei registi più apprezzabili dell’attuale panorama italiano.
Il testo, scritto dal belga Éric-Emmanuel Schmitt, è stato rappresentato per la prima volta nel 1993: ambientato nella Vienna invasa dai nazisti, racconta dell’incontro tra un anziano Sigmund Freud e un visitatore misterioso. In realtà, lungi dall’essere un grande dilemma, l’inatteso ospite è Dio: per un po’ possiamo fantasticare sulle varie interpretazioni da dare a questa apparizione (l’Es freudiano, ipotizziamo: quella componente dell’identità che rimane nascosta e schiacciata dall’Io e dal Super-Io), ma ben presto Schmitt ci nega il piacere di questo gioco di recondite interpretazioni.
Vecchio e tremulo, il Freud tratteggiato da Haber è forse più bradipo del necessario, ma comunque godibile. Vive con la figlia Anna, anch’essa brillante studiosa, interpretata da una Nicoletta Robello Bracciforti decisamente sopra le righe. Lo spettro della dittatura hitleriana che incombe sullo psicanalista è incarnato nel soldato che, di tanto in tanto, irrompe in casa e che trascina alla Gestapo la figlia di Freud. È Alessandro Tedeschi che interpreta il nazista – di cui si adombra, prima, un’omosessualità repressa, e, dopo, una possibile discendenza ebraica – con spirito macchiettistico, ma tutto sommato simpatico.
È interessante la scelta scenografica: l’ambiente unico, disegnata da Carlo De Marino, è l’appartamento di Freud, con pochi elementi di arredo e pareti colore pastello. L’ambiente, però, è molto piccolo e, in un’intuizione pseudo-brechtiana, lascia a vista i sistemi di sostegno e le luci sovrastanti, nonché una larga porzione di fondale nero sulla destra. Proprio da questa oscurità appare Alessio Boni: probabilmente già lì, non visto, dall’inizio dello spettacolo, fa capolino dal telo nero in cui è avvolto, come un clochard svegliato dalla recitazione delle prime scene in casa Freud. Ha la barba lunga e a tratti ingrigita (potremmo dire che si è haberizzato) e veste gli abiti sdruciti e pesanti, proprio come un senzatetto. Il bel volto del teatro italiano incarna un Dio sovreccitato dalla sua forma umana (suscita grandi risate quando si sorprende perché, dopo aver bevuto, deve «fare la fontana»), ma lucido e chirurgico nei dibattiti con Freud.
Proprio in questi ragionamenti lo spettacolo sembra cercare il suo senso: in apertura, Freud dispensa pillole di saggezza, tra un sintomo della vecchiaia e l’altro, e, nella parte centrale, la disputa tra religione e ragione sembra volare alto. Il punto debole del lavoro, a nostro avviso, sta proprio qui: non solleva domande né per interrogare la coscienza del pubblico né per mettere in dubbio certezze. La discussione, abbastanza sterile (perché, in termini più semplici, familiare alla sensibilità comune) serve soprattutto a “dare un tono” alla messinscena. È intrattenimento, ma – cosa ben peggiore – si vergogna di esserlo e attinge a grandi dibattiti filosofici per mascherarsi da qualcos’altro.
Il prossimo appuntamento del teatro lucchese è con la lirica: Il barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini andrà in scena il 14 e 15 febbraio. La stagione di prosa, invece, continua nel fine-settimana successivo con Sarto per signora, con Emilio Solfrizzi, per la regia dello stesso Valerio Binasco (20-22 febbraio).
(Recensione pubblicata su La Gazzetta di Lucca il 9 febbraio 2015)