Abbiamo ancora negli occhi e nelle orecchie il Giovanni Drogo di Woody Neri, indaffarato nella resa d’una solitudine esiziale per la traduzione scenica d’un romanzo, Il deserto dei Tartari, che ci parve meritevole. Ed è evidente come Maura Pettorruso, teatrante con gradi da drammaturga, debba nutrire un peculiare amore per la letteratura novecentesca, se la ritroviamo impegnata, pure in veste d’attrice, nell’Addio alle armi visto sulle tavole dello stesso teatro che fu sede temporanea di quella Fortezza Bastiani.
Si cambia lingua sorgente: dall’italiano sabbioso di Buzzati all’inglese scarnificato di Hemingway, la cui (apparente) semplicità si rovescia in enigmatica stratificazione di senso. Al doppio passaggio, linguistico ed espressivo, corrisponde un processo d’alchemica condensazione, cui contribuiscono (o costringono) le condizioni produttive: la guerra illustrata su pagina trascolora a mo’ di sfondo memoriale, borbogliante sottofondo rumoristico, antefatto relegato fuori scena. Ci si concentra sulla coppia d’amanti, Frederic e Catherine, trascurabili comparse dinanzi a eventi (il primo conflitto mondiale, la disfatta di Caporetto) che li vedono testimoni per una sorta d’asciugatissimo ed emaciato Kammerspiel a due.
La dimessa camera di trasandatezza plebea accoglie un letto in assi di legno e pochi altri arredi: una scatola riadattata a comodino, due bicchieri, una bottiglia di liquore. Luce sottile, di naturalezza ovattata: sembra di sentir l’odore, povero e grigio, di questa stanza da albergo triste, e la mente procede per molteplici suggestioni musicali, tra echi paolocontiane e reminiscenze stile Les amants d’un jour (Albergo a ore, nella nota versione di Herbert Pagani).
Stefano Detassis è un Frederic essenziale, quasi rappreso: scolpisce aspra la battuta ficcando lo sguardo nel vuoto; disilluso e amaro; traduce con diligenza una partitura dall’andamento quasi jazzistico, in cui le pause risuonano più e quanto le parole da pronunciare. Catherine ne è il naturale contrappunto, sparring partner d’una drammaturgia a tratti spigolosa, con scene che sembrano round pugilistici. Non si scontrano, i due quasi immoti amanti, ma ogni lacerto di dialogo risponde a una sottile, talvolta impercettibile, modificazione dei rapporti, attraverso cui passa la riscrittura. Ripresa dopo ripresa, si procede sino al knock out: Frederic, ormai solo, si produce nel monologo, approdo cui ogni singolo segmento del testo, ogni singolo smozzico di parola sin lì resa sembravano alludere e condurre. Come dire: tutto il resto dello spettacolo per scovare quel minuto (in senso di piccolo, raccolto) andito di teatro, nostra teorica dicotomia che, pur non conquistandoci del tutto, costituisce in ogni caso ipotesi feconda. In quel sintagma, Detassis è oltre Frederic, oltre la Grande Guerra, oltre lo stesso Hemingway, nel corpo a corpo col dolore che è proprio del teatro, e della vita: una stilla di verità che val bene quarantacinque minuti di aguzza (e non spiacevole) vigilia.
Il testo necessita levigature (data la fonte, bella e difficilissima, non è facile) cui dovrebbe corrispondere un proporzionale assestamento scenico, ma questo Addio alle armi (che, dal viscoso e interpretabile titolo originale, sarebbe anche alle braccia) sembra valga la pena del cimento e, per paradosso, con altro passo rispetto al teoricamente “più semplice” Buzzati. Applausi sinceri, in attesa di vederne la versione definitiva.