Secondo appuntamento con Spam!, che quest’anno con la rassegna Wonder Women ha allargato la sua programmazione anche al centro storico. Dopo Sketches on Ligeti, di cui vi abbiamo parlato qua, al Teatro San Girolamo è la volta di Heroides, spettacolo che Elena Bucci e Marco Sgrosso hanno tratto dall’opera omonima di Ovidio.
Sei attrici in scena danno voce e corpo alle sei famose eroine greche prescelte: non necessariamente le più note, ma nondimeno emblematiche nel raccontare vicende di donne forti che si confrontano con l’assenza del maschio nel momento di crisi. Fillide implora Demofonte perché ritorni, la ninfa Enone si rivolge rancorosa a Paride traditore, Arianna si risveglia dopo la fuga di Teseo, Canace si appresta al suicidio dopo che il padre ha scoperto la sua relazione incestuosa col fratello Macareo, Fedra si strugge nell’amore per il figliastro Ippolito, e infine Medea accusa Giasone, ricordandogli i meriti e sacrifici fatti in suo nome che lui, oblitus, sembra aver dimenticato. Ognuna delle lettere è riassunta in pochi minuti: ogni racconto sintetizza il mito, fornendo tutte le informazioni necessarie per seguire la narrazione ma lasciando sufficiente spazio all’emotività dei personaggi. Assistiamo quasi a un rito, giacché le attrici si presentano con una formula del tipo «Io, Maria, do voce a te, Medea», a cui fa seguito una sorta di incarnazione (da lì in poi sarà sempre «Io, Medea»).
L’impianto dello spettacolo, basato sull’avvicendamento di monologhi, potrebbe rischiare un senso di meccanicità, ma il gruppo è sempre protagonista nel suo insieme: una alla volta i racconti emergono come onde di un organismo scenico più ampio e organico. La regia è concentrata su ritmo, coesione e affiatamento tra le attrici: questo è evidente non solo nei movimenti corali, ma soprattutto nelll’alternanza delle voci, che sembra seguire una partitura. Quando un fatto interviene a portare un qualche sconcerto, tutte reagiscono con un chiacchiericcio indistinto, da cui emerge solo una voce alla volta, in una successione ordinata ma non artificiosa. C’è un costante equilibrio tra marasma e leggibilità, tra spontaneità e simmetria: il risultato dà vita a momenti di grande suggestione scenica.
Le attrici vestono abiti bianchi, di diversa fattezza e con richiami all’eroina interpretata, ma tutte hanno in comune il senso di purezza nuziale. Le luci ne esaltano la fisicità e la possanza, specialmente nei numerosi momenti corali di canto e ballo, ma sapendo anche isolare il racconto della singola eroina. Alle spalle delle protagoniste, in fondo sulla destra, troviamo Giorgio Distante, che esegue dal vivo la colonna musicale da lui composta su una sonorità cruda, dissonante, a tratti quasi rumoristica per l’uso anomalo della tromba e della tuba, alternate con una batteria. Pur restando estraneo all’azione per gran parte dello spettacolo, è l’asse portante di quella gestione ritmica serrata di cui dicevamo. È pure l’unico maschio in scena e, come tale, diventa oggetto di imbarazzata curiosità e rappresentante di una categoria assieme odiata e spasimata. A un certo punto le eroine provano a vestire abiti maschili, per poi abbandonarli sulla sedia: l’esasperata ricerca del contatto con l’assente si trasforma in riconoscimento dell’alterità dell’uomo. L’unica strada, per loro, è il rafforzamento del gruppo di simili che, qualche secolo più tardi, avrebbero chiamato sorellanza.