Si apre la stagione di prosa: mentre gli abbonati del Giglio riannodano i rapporti con i vicini di poltrona, Angela Finocchiaro perde il filo. Sala esaurita e, mimetizzato tra i paganti, sto pure io, che sono Arlecchino.
La cornice allo spettacolo è promettente: la protagonista, attrice amatissima dal pubblico lucchese, entra dal fondo della platea in improbabile bronzeo costume da eroe greco, con schinieri, corazza e cimiero crestato nei toni dell’arcobaleno, per poi raggiungere il palcoscenico ancora a sipario chiuso. Dichiara che vuole smetterla di interpretare quel solito personaggio così simile a ciò che è lei nella realtà: stavolta sarà tutt’altro… un uomo, anzi, un eroe! E sceglie Teseo, il giovane ateniese che annientò nel labirinto il terribile Minotauro: il suo racconto del mito, a partire dal concepimento del mostro, è una narrazione godibilissima, colta e sorniona, portata ad arte da chi sa ben gestire il monologo brillante.
Il sipario si apre, il labirinto si rivela: più piani sovrapposti di tripolina scura a rappresentare le insormontabili pareti, quasi ipnotiche, nel riverbero delle luci ad alto contrasto. Nient’altro in scena. Come orientarsi? Una parete ci parla: su di essa si proiettano scritte provocatorie, domande, ma, nel rispondere, Anna-Teseo riceve di rimbalzo solo commenti sarcastici. Con questa destabilizzante dinamica dialogica, si entra in un dedalo di osservazioni, polemiche e narrazioni che diventano indagine sulla propria identità, sulla propria coerenza, sulle proprie risorse. Il labirinto architettonico perde sostanza, le pareti si fendono, a tratti scompaiono e resta una scena sgombra e buia, come spazio mentale. Teseo perde il filo, si smarrisce del tutto e, al suo posto, riaffiora Anna, una donna-attrice-moglie-stanca con figli adolescenti, un po’ più arguta della media ma piuttosto prevedibile: proprio ciò da cui in apertura di spettacolo la protagonista aveva dichiarato di voler fuggire… e io, mi sento tradito, ché mi aspettavo davvero qualcosa di nuovo rispetto alla Finocchiaro. La regia di Cristina Pezzoli è comunque efficace, sapiente, dà ritmo e vigore al pari delle metamorfiche scene di Giacomo Andrico, vitalizzate dalle luci di Valerio Alfieri.
In quadri successivi, contornata e manovrata da sei ballerini-acrobati a torso nudo abbigliati con gonnellone a portafoglio roteanti al danzare quasi fossero dervisci (le belle coreografie sono di Hervé Koubi, in cartellone al Giglio anche per la danza, con Les nuits barbares), la protagonista rivive l’infanzia dalle Orsoline, un’amarissima avventura alla Coop, le incoerenti versioni del carpe diem di tre generazioni femminili, le contraddizioni all’acqua di rose di certa morale cattolica, impeti di fiducia e ricadute avvilenti…
Però, una via d’uscita da questo labirinto c’è: si tratta di tornare con umorismo al mito, calandosi nei panni del Minotauro, che sarebbe pure un bravo figliolo, altro che cannibale! Essendo toro per metà, ciò che agogna davvero non è altro che una bella fornitura di erbetta fresca… e allora diamogliela: vincendo il Minotauro con un cesto d’insalata, anche la donna comune scopre di avere nelle corde il guizzo dell’eroe e tutto torna a posto. A fine spettacolo si balla il sirtaki, facile aggancio per l’applauso del pubblico, molto ben disposto, che si è trovato descritto in scena per ciò che sa già di essere: piacevolmente spettinato per aver preso qualche ventata di ironia, ma rassicurato sulla propria sanità e rettitudine.
L’apertura ideale per la stagione di un teatro di tradizione: par che arrivi il nuovo, ma tranquilli, no.