A teatro non sempre si esce con la voglia di ritornarvi. Specialmente se ciò che si è visto ha avuto la capacità di distruggere un classico riproducendolo in maniera ovvia, senza particolari reinterpretazioni. E, nel caso non si trattasse di un classico, ci si è trovati dinanzi moduli stancamente pseudotelevisivi che non valeva la pena di vedere riprodotti sul palcoscenico.
Con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini questo non succede: essi hanno la rara capacità, finito lo spettacolo, di indurre a cercare dove e quando torneranno in scena, per rivederli, emozionarsi ancora. Non lavorano sui classici della drammaturgia né fanno intrattenimento: piuttosto, scavano nella propria esperienza personale, nel quotidiano, lasciando intravedere la vita da un’angolazione diversa, spiazzando, emozionando, facendo sorridere, ma anche scuotendoci dal torpore delle nostre esistenze, perennemente mediate dalle esperienze indirette, riportate, riferite, come raccontano nel testo introduttivo della loro messinscena al debutto assoluto presso il Teatro India di Roma per poi intraprendere una giusta tournée.
Li avevamo ammirati per profondità di analisi e scavo psicologico nei precedenti lavori, come Reality o il magistrale Ce ne andiamo per non darvi ulteriori preoccupazioni, premio Ubu 2014, storia emblematica di quattro casalinghe greche suicidatesi a causa della crisi economica. Questa volta, lo spettacolo tagliente e dal titolo evocativo (Il cielo non è un fondale) è ispirato ai testi di Annie Ernaux e W. G. Sebald, autori scoperti di recente pure in Italia e che sanno raccontare il nostro tempo attraverso un’apparente cronaca autobiografica, coincidente con una sorta di “nostro” preciso ritratto generazionale.
Il sogno che Tagliarini riporta all’inizio dello spettacolo è giocato sul proprio possibile vissuto reale e sul rapporto intessuto con Daria (la stessa artista interviene a modificare, giustificare, benché non paia averne le forze). Quante volte avremmo potuto agire diversamente ma non lo abbiamo fatto, quando avremmo potuto? Non basta ripensarne i momenti in sogno.
Quando gli altri due giovani attori, al primo lavoro con Deflorian/Tagliarin, entrano in azione, le dinamiche si evolvono ulteriormente. Monica Demuru è una bravissima vocalist capace di modulare melodie della memoria assieme a situazioni metropolitane, come la perfetta disanima della cassiera a pochi minuti dalla chiusura del supermercato; Francesco Alberici, a suo agio nel ruolo di giovane disilluso, ci racconta, al pari di un saggio di Goffman, il rapporto prossemico che ognuno di noi ha con l’altro, in questo caso con l’extracomunitario incontrato a più riprese in un percorsi urbano. E che dire dello spassosissimo rapporto che Daria intrattiene col termosifone rigorosamente in ghisa, dipinto di bianco, perfetta icona del luogo eletto a rifugio, sin dalle elementari, ove rannicchiarsi a bere la birretta nel nostro triste monolocale arredato Ikea?
Antonio e Daria sanno raccontarsi/ci in una maniera apparentemente naturalistica, ma che è, invece, il frutto di profonde riflessioni sul nostro essere sempre più distanti, sempre meno empatici. Troppo presi dai nostri bisogni indotti che ci rendono invisibile chi ci sta accanto. I loro spettacoli riattivano la percezione del mondo, rendono meno ciechi, come se indossassimo occhiali che ogni volta ci sorprendono, magari, semplicemente, chiedendo, come in questo caso, di serrare lo sguardo per qualche istante e riaprirlo su una scena poverissima ma efficace, completamente mutata per posizione dei corpi. Troppo spesso ignoriamo del tutto le possibili mutazioni di prospettiva alla nostra portata. A giudicare dei calorosissimi applausi finali, anche questa volta loro ci sono riusciti.