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Parlare d’uno spettacolo dei Sacchi di Sabbia è semplice e, al contempo, complicatissimo: seguirli da oltre vent’anni costituisce un vantaggio nel tirare i fili che compongono l’intricato e raffinatissimo gomitolo d’intuizioni, riferimenti, temi cari a Giovanni Guerrieri e alla sua picciola compagnia, nugolo d’idee e azioni che mai prescinde dal Gioco, nella sua più elevata accezione, e dal Teatro (maiuscola che detestiamo, ma quanto mai d’uopo). Al contempo, è difficile esprimersi, specie per la contiguità umana con questo gruppo che mai sbaglia un colpo (dei circa 15 titoli cui abbiamo assistito, neppure uno che non valesse la pena d’esser visto, pur con le endemiche e personali oscillazioni di gradimento), ma non per questo il silenzio sarebbe opzione migliore.
S’aggiunga che questo Eschilo in salsa (quasi) comica ci convince davvero: abbiamo lasciato il gruppo col divertente Dialoghi degli dei e, adesso, all’ambientazione scolastica si sostituisce l’evocazione dell’epica mediante uno scudo rotondo a centro scena; restano, d’altro canto, gli irresistibili Enzo Illiano e Gabriele Carli a recitar da comici, duetto che mescida lingue e accenti (dal campano alle mutevoli calate toscane) e un’insistita ironia metateatrale che permea il tutto. Sulla sinistra, Giulia Gallo è puntigliosa presenza parlante, ora a didascalia della storia, ora in improbabile dialogo nientepopodimenoche con Eschilo, un Guerrieri in occhiali scuri che pare uscito da L’armata Brancaleone. Si ride subito, prima in sordina, poi in crescendo, non tanto per il liberatorio effetto della dissacrazione, bensì per la ritmica feroce e ticchettante del dettato, da sempre patrimonio espressivo della brigata. Nondimeno, questo lavoro sembra, più dei Dialoghi, centrato, summa a tratti delle soluzioni di cui la compagnia s’è dotata negli anni, senza cedere a indulgenti auto-citazioni, confermando come la ricerca sia sempre concentrata sull’efficacia scenica, la pregnanza teatrale.
L’assalto alla città della tragedia diventa ridicolosa descrizione a due voci (eccezionale Carli, che rievoca certe ciarliere signore toscane, quando ammirato descrive i campioni tebani), in cui la ripetitività della situazione di sette assaltatori e sette difensori potrebbe forse trovare ancor più consistenza nella coazione-a-ripetere (stilema comico mai superato), là dove il rischio è la coazione-e-basta. Non meno interessante è il complesso gioco di segni proposto che, pur in un allestimento scarno d’arredi tra pupazzetti, soluzioni gestuali ad ampliare lo spazio e spericolate messe in crisi del piano finzionale, si dipana nel continuo fuori-dentro sia rispetto alla storia sia nei confronti della storia tout-court.
In ultimo, la sferzata al cuore: esaurita la pugna, Gallo intona, struggente, Don’t Kill my Baby and My Son, ballata che il cantautore “comunista” Woody Guthrie (sulla sua chitarra campeggiava un inequivocabile This machine kills the fascists che gli regalò particolare considerazione durante la Caccia alle streghe) dedicò, nei primi anni Quaranta del Novecento, a un fatto occorso a Oklahoma City nel 1911, quando una famiglia di afroamericani fu trucidata dalla popolazione bianca sulla base di una falsa accusa. L’inutile, inascoltato, ma necessario appello a non uccidere, nel mezzo d’un conflitto che, lo sappiamo, non può che avere quell’esito. Eppure, il teatro, l’arte di vedere le cose che sono nascoste, ha proprio quello scopo: toccare, affrontare, misurarsi con questo dolore, anche se rivestito di fogge comiche, pena, altrimenti, la totale e imperdonabile inconsistenza. Applausi convinti, che si sfumano nella brezza d’una fine-estate brillante, con la splendida vista su Firenze.