Siamo a scuola, in una palestra ora recintata da candide impalcature. Qui, causa fastidiose infiltrazioni, è stata spostata la sala professori: un banco, grigi armadietti metallici, due panche. 1991, prossimi alla chiusura del secondo quadrimestre, i professori si ingegnano su come riuscire a sopravvivere agli scrutini.
Mattina: la stanza si anima, popolandosi di insegnanti, stereotipi di genere appesantiti dalle più disparate nevrosi: la professoressa Baccalauro (Marina Massironi), insicura e piena di dubbi, non solo per quanto riguarda i propri alunni, ma anche la propria vita e la nascente simpatia per il donchisciottesco professor Cozzolino (Silvio Orlando), insegnante di lettere e difensore delle cause perse. Insieme a loro il bigotto professore di religione (Vittorio Ciorcalo), ipocrita e moralista, la pettegola e perfida insegnante di storia dell’arte (Maria Laura Rondanini), il lascivo ingegnere (Antonio Petrocelli), odiosissimo ma amato dal preside ignorante (Roberto Citran) e, a chiudere il gruppo, il feroce docente di francese (Roberto Nobile), alcolizzato e di non celate simpatie fasciste. In fretta si capiscono le relazioni che intercorrono tra i docenti che, costretti a una convivenza forzata, non nascondono la reciproca antipatia.
È chiaro che i dissidi, già presenti, si sono aggravati e i rapporti compromessi durante l’ultimo «viaggio d-istruzione» a Verona, nel corso del quale la professoressa Baccalauro e il professor Cozzolino hanno tenuto comportamenti poco ortodossi davanti ai ragazzi, al punta da dare adito a pensieri maliziosi circolati tra colleghi e alunni. Quando una lettera anonima circa la galeotta relazione giunge al preside, il pregiudizio si fa più forte. Nel corso della messinscena, a mo’ di indagine, si verrà a sapere che la lettera quasi certamente è stata scritta dall’incubo di ogni insegnante: l’alunno Cardini, un ragazzo psicopatico per la maggior parte dei docenti, ma solo “problematico” per il clemente Cozzolino.
La recita si caratterizza di certo per la vena comica che finisce, d’altronde, per sovraccaricarsi, precipitando tutti i personaggi in una dimensione macchiettistica, e annullando qualsiasi altra lettura possibile. La regia di Daniele Luchetti, già autore dell’omonimo film del 1995 e regista dell’ancora precedente versione scenica, sembra adagiata sulla bravura degli attori, i quali, nonostante tutto, non riescono a svincolarsi da una dimensione frivola, umoristica. Si sorride e niente più: per i racconti rocamboleschi dei ragazzi in gita, per le incomprensioni, per l’isteria manifesta, guardando ciò che capita sul palco come qualcosa di verosimile, quindi giustificando il pettegolezzo, l’ignoranza e la frustrazione dei personaggi.
Ciò che manca − il motivo per cui tutto questo non riesce a distaccarsi dal quadro semplice della scena − è sicuramente la presenza di una visione più critica. La regia, concentrata sull’effetto comico, sembra del tutto dimentica di qualsiasi altra dimensione possibile. Ci si aspetterebbe di approdare da qualche parte, di trovare una densità oltre le parole, ma, al chiudersi del sipario, si resta a mani vuote. La messinscena si conclude mostrando nient’altro che ciò che si vede: i professori che, giunti al momento della compilazione degli scrutini, non possono far altro che sottomettersi alle regole del mercato dei voti.
Il testo di Domenico Starnone resta ancorato alla sua epoca, nessuna azione è rivolta ad attualizzarlo: in scena i personaggi finiscono così per rimanere caricature coperte di polvere.