Non ho letto Il re di Girgenti del mitico Andrea Camilleri da cui il blasonato Massimo Schuster e il fido Fabio Monti hanno tratto il loro spettacolo. Quindi non so che cosa hanno conservato o tagliato dal romanzo. Se hanno mantenuto le stesse parole dello scrittore oppure no. Ma, durante la visione dell’allestimento, c’era qualcosa che non mi quadrava.
Andiamo per ordine.
Sulla scena, un tavolo fa da palco a dei piccoli pupi animati a vista dall’esperto Schuster. Si racconta la storia del contadino Zosimo. Dalla leggendaria nascita, in compagnia dei servizievoli animali da cortile, fino alla sua incoronazione e alla morte, appeso alla forca e attaccato alla corda di un aquilone. Lo spettacolo comincia con una canzone dedicata a Zosimo. Alla maniera dei cantastorie siciliani (autentica canzone popolare o brano scritto per lo spettacolo? Non è dato sapere). Voce e chitarra di Fabio Monti a cui si aggiungono la voce e l’arpa di Schuster il quale, però, canta in italiano. Rimproverato dal compagno, decide che da quel momento si parlerà in siciliano. O almeno con la sua cadenza. E così inizia il racconto ambientato in un fiabesco e settecentesco meridione. Dove si intuisce che spagnoli e piemontesi sono oppressori del popolo al pari dei notabili e nobili locali.
La storia è piena di episodi e figure del mondo mitico-popolare. Episodi e personaggi che dovrebbero ammaliare, far ridere, pensare e coinvolgere. Così come si è coinvolti quando si sente raccontare una bella storia, un’antica fiaba. Purtroppo, stavolta non succede. Il racconto rimane lontano sul palcoscenico. Nonostante la fascinazione dei personaggi, dei pupi e del teatro popolare a cui alludono. Come se ci fosse la famosa quarta parete che, proprio nel teatro di narrazione, non dovrebbe esserci. E questo non mi quadra. Poi verso la fine dello spettacolo Massimo Schuster si siede su un lato, apre un libro, e legge con un finto accento siciliano un brano del romanzo. E non è un bel momento.
Forse è questo che non mi quadrava: hanno finto di raccontare. Ovvero hanno fatto quelli che raccontano invece di raccontare veramente. E, probabilmente, non se ne sono accorti. Forse erano così attenti a riportare in scena le belle parole di Camilleri che si son dimenticati che raccontare non vuol dire recitare. E che le parole scritte per essere lette spesso non funzionano quando vengono dette. La lingua di chi racconta dovrebbe essere intima e personale. Non si può fare finta. Altrimenti è recitazione. E i cantastorie non recitano, raccontano. Quando fai finta di essere un cantastorie siciliano, anche se lo fai bene, ti metti in una bacheca. Dietro un vetro. La quarta parete. E ti fai guardare come un reperto, magari bello, ma comunque lontano…
In realtà, ad essere sincero, non sono proprio sicuro che sia andata così, non ho letto il romanzo di Camilleri, però il ragionamento mi quadra.