Il più sublime, poetico tra i cantici: è questo, secondo alcune autorevoli esegesi, il senso intimo del titolo di uno dei più citati (non sempre a proposito) libri del Vecchio Testamento, attribuito non senza disinvoltura a Re Salomone (sarebbe assai posteriore) e tra gli ultimi contributi accolti nel canone biblico, dopo la nascita di Cristo. Ci riferiamo al Cantico dei cantici, apicale capitolo della letteratura d’amore, volume peculiare, in cui mai è riportata la parola Dio, benché sia assolutamente sacro, divino, pur nell’esplicita e sinuosa corporeità, l’amore cui si riferisce.
Virgilio Sieni, non lo scopriamo adesso, volge spesso e volentieri lo sguardo alla letteratura antica, in una muta e mai silente ricerca intorno a concetti profondi, ineffabili, legati alla materialità dei corpi, dei gesti da questi promanati e a quello, ancor più quasi esoterico, di origine. Ne ricordiamo una portentosa prova alle prese con Lucrezio (La natura delle cose, nel 2008), che corrispose, notizia in sé trascurabile, al battesimo di chi scrive rispetto a quella disciplina fusionale che molti chiamano teatro danza e che, forse, meriterebbe l’ascrizione al ben più vasto ambito della performance.
Il Goldoni labronico è un pachiderma sin troppo ampio, e freddo, per una creazione tanto sibillina, seminale: al calar delle luci, nel timido baluginio di un ocra dorato, si scorgono a malapena due corpi, quasi speculari. In sottofondo, l’aria è solcata dall’acuminato suono d’uno strumento ad arco: non fosse per la locandina, diremmo un violoncello, tanto l’abile Daniele Roccato, calato nella penombra in posizione centrale, sa giocare con armoniche acutissime e rumorismi legnosi, per una partitura d’ipnotica astrazione. I corpi sono, presumibilmente, quelli dei due amanti del dettato, ma ben presto la coppia viene raggiunta da altre quattro figure, prima invisibili nei pressi del musicista, identicamente vestite ai primi danzatori, non fosse per l’unica differenza dei seni coperti di Giulia Mureddu, rispetto a Claudia Caldarano e Luna Cenere.
Ha inizio una danza che alterna coralità a momenti intimistici, in un’atmosfera di rarefatta indifferenziazione di genere: non si distinguono quasi in niente corpi maschili e femminili, quasi la risalita all’origine del gesto (e delle cose, vorremmo dire, ricuperando il riferimento lucreziano) possa approdare a una condizione androgina, anteriore alla “separazione” narrata da Aristofane nel Simposio platonico. Sempre coerente l’esecuzione musicale, mai narrativa o mimetica, via via nutrita di poderosi crescendo a stamparsi nell’incavo della sala. Ed è un peccato, lo capiremo solo a metà spettacolo, che lo spazio sia un, per quanto bello, teatro all’italiana, con la platea posta su un piano inferiore alla scena: l’azione, infatti, si svolge sì senza scenografia, se non fosse per la pavimentazione fondo oro che richiama la pittura senese (e orientale): l’importanza del dettaglio risulta fondamentale per una completa percezione del lavoro.
Otto momenti, probabilmente in corrispondenza degli altrettanti brani di cui si compone, secondo una delle vulgate più diffuse, il Cantico: un prologo, cinque poemi, un epilogo e un’appendice. Non una parola. E quasi diremmo, errando, neppure un suono, riferendoci a un’intelligibilità musicalmente convenzionale.
Il gesto che prolifera dal corpo, che sorge e si moltiplica, nascondendosi nel nugolo di arti delle sequenze d’insieme: un’ora scarsa di danza abbacinante, a tratti ineffabile, che incanta gran parte del pubblico e che, lo ribadiamo, meriterebbe spazi più raccolti e diversamente concepiti. Applausi.