Johann Christian Woyzeck, prima fuciliere del II° reggimento, poi barbiere disoccupato, ritorna in tribunale per l’omicidio dell’amante Marì, da cui aveva avuto un bambino. In prima istanza, era stato ritenuto capace di intendere e dunque condannato a morte; adesso, lo ritroviamo in scena per un nuovo processo, allo scopo di riesaminare la sua salute mentale. La riscrittura dell’opera di Büchner − realizzata da Rita Frongia − guarda direttamente al contemporaneo, al mondo della giustizia, ribaltando il punto di vista e mettendo per protagonista un uomo psichicamente malato, “incappato” in un femminicidio di cui si devono ricostruire i fatti.
Tuttavia, se l’atto violento viene giudicato in una società alquanto discriminatoria in cui l’uguaglianza viene a mancare, si può dire che la legge sia uguale per tutti?
A questa domanda la regia di Claudio Morganti risponde in modo sorprendente.
C’è la trasposizione della vicenda in un clima comico-grottesco in cui il giudice, interpretato dallo stesso Morganti, carattere teso, a tratti superficiale nelle affermazioni e domande agli imputati, deve spesso fare da paciere fra due avvocati (Gaetano Colella e Francesco Pennacchia), i quali, per tutto lo spettacolo, litigano, ridicolizzandosi vicendevolmente. L’atmosfera da disputa comica creata dal trio ci mostra la possibilità di una nuova interpretazione, rivelatoria, del caso, evitando la decapitazione di un uomo usato come martire. Nelle arringhe finali dei due avvocati, isolati rispettivamente da puntuali fasci di luce, si discutono le due probabili soluzioni poste durante la querelle giudiziaria.
L’intento di portare lo spettatore a una riflessione sull’attualità riesce, grazie alle tecniche da cabaret, che trovano il connubio perfetto con il teatro di stampo civile.
Come un’ombra, il Woyzeck interpretato da Gianluca Balducci è l’unico personaggio in scena che, attraverso monologhi composti da immagini a metà tra l’allucinato e il realistico, fa ricadere la situazione in un’atmosfera torbida e raccapricciante; il respiro affannoso, rumoroso, ai limiti del patologico − il pensiero va alla Cheyne–Stokes respiration − suona come un’anticipazione della morte. Assieme alle frasi deliranti, tutto riporta alla malattia mentale del personaggio, alle sue condizioni di anima ormai prossima alla fine. Anche il corpo cambia forma, si contorce e, grazie all’uso simbolico delle luci, le forme del viso si mescolano, contribuendo alla creazione-trasfigurazione totale di un mostro.
Gianluca Stetur (nel ruolo del compagno d’armi di W.) ripercorre i ricordi traumatici della guerra portatrice di un malessere incolmabile. Nell’aula spoglia con la grande scritta La legge è uguale per tutti si presentano i testimoni che ripercorrono, alcuni sotto giuramento, altri no, episodi di vita della coppia prima della morte di lei. Spicca in particolare l’interpretazione di Paola Tintinelli nel ruolo della madre di Marì, dal nome M, incarnazione della superstizione, che entra in tribunale scomodando la ragione.
La citazione pasoliniana che Morganti inserisce spesso nel suo lungo studio dell’opera di Büchner «Ah maledetto creato che strazia i corpi e non rende giustizia!» afferma la realtà di un caso giudiziario che non ha trovato la giusta collocazione. Una storia sospesa nel tempo dove è la stessa legge a prendersi gioco dell’uomo, come, in fondo, avviene pure nelle grandi tragedie classiche. La parodia della giustizia e dell’apparato che lo compone: dal giudice, al cancelliere/burocrate ignorante, agli avvocati-macchiette, fa diventare Il Caso W un grande esempio di “teatrino” sociale, che in scena è metateatro.
Un testo e una messinscena provocatori che burlano tutti, anche gli spettatori.