Due uomini qualunque, senza identità precisa, accovacciati a terra in veglia, capo reclinato, pantaloni beige e t-shirt blu. Identici, nel sonno e nel sogno complice, il medesimo, che li desta di soprassalto; differenti, da svegli, per fisicità, intenzioni, voce e agire. Anonimi, divagano, nel raccontarsi la comune premonizione, all’ombra di un presunto melograno. La presenza dell’albero, inconfutabile prova della veridicità del sogno, è incerta. Sentenza di morte per entrambi o solo per uno di loro? L’oscurità che obnubila pensieri e sguardi non rivela, non sentenzia la condanna, a tratti surreale e stupida, a tratti certa e ineluttabile. Un ventaglio di possibilità si apre nelle loro menti disperate, all’operosa ricerca di una via di fuga da quel destino beffardo.
Gioco di specchi è uno spettacolo che necessita della vicinanza, fisica ed emotiva, di un pubblico complice al ludico vaticinio dei due personaggi, consumato nella calda intimità di una surreale veglia. La regia di Ciro Masella trascina in questo straniante notturno lo spettatore che, assiso su gradinate di legno, scruta i volti imbevuti di paura di due personaggi che mai svelano del tutto sé stessi. Lo spazio è ingombrato da rari oggetti (una scacchiera, ne diremo), dominato dall’oscurità: Marco Brinzi è il presunto Sancho Panza depositario di una filosofia concreta, terragna e disillusa. Dice, con voce baritonale: «Siamo tutti in piedi, come scemi, davanti alla verità». Lo spaventevole cavalier errante è Masella: fra i trilli e i sussurri delle sue rutilanti ascendenze vocali, mostra la gamma del terrore della morte, e della paura, nella consapevolezza d’essere nessuno, insignificante. «Abbiamo fatto così tanta strada per morire un giorno qualunque?».
Il Chisciotte riscritto da Stefano Massini diventa pretesto per un excursus dai contorni novecenteschi, nel quale la semantica e il linguaggio di Cervantes sfuma in favore di altro. Vita o morte? Sogno o realtà? Dicotomie certo presenti nel celeberrimo romanzo. Tuttavia, nel dramma paiono punti cardinali di un’altra riflessione, intarsiata nel gioco scenico, di specchi appunto, ying e yang che potrebbero incarnarsi in due personaggi qualunque dell’immaginario letterario contemporaneo. Il capolavoro ispanico appare più pretesto che punto di partenza per un’elaborazione drammaturgica: assume i tratti di una lectio compiacente e compiaciuta su alcuni snodi della riflessione novecentesca, da Pirandello a Beckett passando per Freud. Allora: perché il Chisciotte?
La regia avrebbe forse potuto assolvere al delicato compito di “tradire” il testo, asciugando una drammaturgia di fluviale verbosità per un maggior respiro scenico dei personaggi, “contrari” quasi beckettiani, svincolandoli da una geometrica, esatta partita a scacchi con la Morte, probabile retaggio bergmaniano. Quando Chisciotte e Sancho si approssimamno alla propria condanna, il sistema dei ruoli si frantuma e gli attori invertono le parti: Masella diventa un mesto e umiliato Sancho, la maschera grottesca di Brinzi, non saldissima, è sciolta in favore di un fierissimo cavaliere. L’incrocio non risulta perfettamente a fuoco: Masella non assume la chiave grottesca del Sancho “precedente”, restituendo un carattere personale in linea con le pregevolissime doti vocali che lo contraddistinguono. Entrambi gli effetti sono forse voluti, nella ricerca dell’ambiguità fra i due personaggi che scivolano l’uno sull’altro confondendosi, in un gioco di maschere all’occorrenza assottigliate.
Ben congegnati i giochi di luce, a dettare un ritmo dilatato per accelerare sul finale, altro merito di una regia in grado di trasportare lo spettatore nella penombra di quella notte assurda, allucinogena, all’ombra delle fronde del melograno.