Tra le migliori pagine di Carmelo Bene, penna divina se solo avesse voluto cimentarsi esclusivamente con la scrittura, s’annoverano quelle sulla nascita dell’amore per il melodramma. Il libro è Sono apparso alla Madonna, titolo paradossale d’autobiografia ancor più paradossale: prima, CB rivive l’invito “a smettere” ricevuto da un insegnante di canto (un tenore di meno, viperino e coerente sigillo del nostro; e quanto sarebbe migliore un mondo in cui a chi non fosse “tagliato” per un’arte venisse davvero palesata la realtà della cosa?); di seguito, narra la folgorazione lirica, grazie alla stessa zia che l’avrebbe poi introdotto alla prosa. Il piccolo Carmelo, però, non sapeva proprio capacitarsi del fatto che lo stesso spazio del teatro potesse accogliere sia le mirabolanti e mai realistiche storie d’opera sia i ben più quotidiani (e noiosi) drammi in cui i personaggi “parlan tra loro senza neppure tentar un recitativo”. Il favore andava evidentemente alle prime: al sogno, all’inverosimile, alla dépense.
Confessiamo, spudorati e inverecondi: vedendo Il cielo non è un fondale, apprezzatissimo lavoro (anche da questa rivista: leggere qui e, soprattutto, qui) firmato Deflorian/Tagliarini, tutti i dubbi, pur puerili e impertinenti, del giovane Bene ci hanno assalito, turbato, immalinconito. Non foss’altro per la com-presenza, nell’insidioso e articolatissimo disegno post-drammaturgico ordito dai due artisti, d’inserti musicali tra lo spiazzante e il sinuoso, offerti dalla plastica vocalità di Monica Demuru. Avremmo voluto non finissero mai quelle minute arie a punteggiar la sciente monodia dei tre compagni scenici (citiamo pure Francesco Alberici), chiosa e suggello d’una drammaturgia che si sottrae a sé stessa, si dribbla e s’imbroglia in un vortice di caparbissima e implosiva autoconsunzione.
Un sogno iniziale (di Tagliarini) si trasfonde in quel loco anch’esso onirico d’una scena scura, ampia quanto ingombra, caverna di metafisica assenza in pendant con la smarrita ironia di Deflorian innestatasi tra le parole dell’altro, le sue piccole manie, le sue nevrosi, nulla importa se reali o fittizie. Ebbene, quel colto ondivagare tra piani di verità, tanto apprezzato (ne capiamo i motivi) da gente come noi, ci è parso al contempo vezzo insoffribile, cimento esclusivo.
Pure troppo.
Pur-troppo.
Sappiam bene che non tutti i vini son per ogni palato, ma, dopo aver apprezzata anni fa la gestazione di Reality, qui la palpabile sensazione è d’una maniera acquisita, nella compiaciuta tessitura d’interstiziali ed esoterici segni stilistici atti a corroborar il pre-esistente rapporto con uno spettatore eletto, illuminato, pure internazionale.
Una platea che sappia riconoscere e apprezzi i tic e le (sin troppo) reiterate onomatopee di Daria, il piglio morettiano di Antonio, la messe di riferimenti saputi che ne alimentano il dettato, la compiaciuta nonchalance. Scrittura cui sembra mancare, quando Demuru tace, la musica come flusso, scintillio, compiutezza ammaliante anche per chi non ne sappia. Il punto, personalissimo e consapevolmente minoritario anche a fronte dei riconoscimenti raccolti da questo lavoro, è che allo scorgersi della maniera corrisponda forzatamente il venir meno del rischio, dell’urgenza: la cosiddetta ricerca s’approssima, così, alla sua propria elisione, nel comodo e contraddittorio rifugio del rassicurante.
Luogo comune vuole che le grandi opere d’arte s’amino o detestino a prescindere dalla loro decriptazione: e chi scrive, attorniato da un pubblico sceltissimo (tutti addetti ai lavori: non è pure questo un problema? Macché…), s’è davvero sentito prossimo al piccolo Carmelo Bene che sgambettava impaziente nell’attesa che iniziasse la musica.