Il teatro è arte strana, insidiosa, sfuggente. Diremmo persino mercuriale, ma poi ci accusano d’esser criptici (i dizionari online non sarebbero irreperibili…) e, poiché vorremmo sottrarci a certe dinamiche, non lo diciamo. Ops… A volte, si resta incantati (o perplessi o smarriti) con fantasmagorie inimmaginabili, testualità gemmate, artifici sonori da musica delle sfere. In altre occasioni, è sufficiente un semplice, umanissimo, trascurabile attore. Vi risparmiamo la fregnaccia dell’anagramma con teatro (in realtà, ce la giochiamo ogni volta possibile), benché la curiosa coincidenza, in italiano, ha il merito d’accendere una luce, titillare una fertile sensazione.
Prato, giardino “scoperto”, due passi dal Metastasio, eppure quasi remotamente bucolico. Al bar, panaché (birra e gazzosa alla francese) e vini locali (la miglior e meno battuta area toscana, quella dello storico Carmignano) e ZTT, Zona a Traffico Teatrale. Poco oltre, appunto, una platea stretta di sedie in plastica fronteggia un tavolino, niente più. Sfuma il sottofondo: un piazzato di luci rischiara la scena.
Entra Riccardo Goretti. Anzi no, è il Sindachino, militante tradito, giocatore incallito, compagno aduso all’abbandono. Di prospettive e idee, sogni e luoghi, compreso il circolo ARCI di cui si sta celebrando, al contempo, cinquantennale e chiusura. Non lui, che attende i tre compari di sempre: Dumenuti, Krusciovve (più volte sindaco del paese), la Madonnina, presenza muliebre ancorché bestemmiatrice di prim’ordine. Li attende per la briscola, facendo e disfacendo un solitario impossibile, sigaretta dopo sigaretta. Ogni sera da quindici anni, nonostante tutto e tutti, cascasse il mondo, anche e dinanzi a quel mazzo mancamentato il cui fante di denari (il gobbo a mattoni, del titolo, appunto) andò perduto.
E tra la leggendaria inaugurazione con Gianni Morandi, le successive commemorazioni e l’ormai prossima serrata, ecco la storia declinante, occidente (voce del verbo occidere) d’una comunità tenuta assieme da un’idea che era, in realtà, una confusa nebulosa d’istanze, di necessità, di dolori da riscattare.
La recitazione di Goretti è il pezzo forte, ben più e ben oltre d’un falso monologo (in scena arriva pure Massimo Bonechi, sua la regia) composto coi crismi d’una drammaturgia popolar-toscana a rammentare, nell’originalità, certi soli di Alessandro Benvenuti: è come se nello sguardo accigliato, nei trabocchi vocali, nel curvar di spalle s’insinuassero gli artisti che l’attore casentinese ha studiato, nell’etimo latino di amare, in anni di proficua gavetta. Le delicate ruvidezze di Carlo Monni, i guizzi del miglior Benigni, certi lampi di quel Kaemmerle compagno di peripezie recenti. Senza furbizie o truccacci, e n’avrebbe donde, a far venir giù tutto a suon di risa e battimani.
È un’ode autobiografica al tramonto, questo Gobbo : strappa risa al labbro, gocce all’occhio, palpiti al cuore. A un mondo, a un tempo, a quando esistevano i luoghi (curioso che il percorso degli Omini, ex gruppo di Goretti, si concentri sulle stazioni ferroviarie quali non luoghi). Erano le Case del Popolo, di nome e fatto, posti in cui, citiamo una storica sitcom americana, “Everybody knows your name“, sottoinsiemi speciali e migliori dei bar: si svolgeva la vita, non catodica e non (ancora) preda dello spettacolo, di un’Italia in prevalenza maschile, certo da non idealizzare (si pensi ancora al Cioni Mario benignesco), ma che non è affatto disumano rimpiangere. Almeno un po’.